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2025-09-13 21:08

Il Ponte, i Muri dell’Ideologia e le Ragioni Profonde di un Confronto Possibile

IL PONTE SULLO STRETTO DI MESSINA

di: 
David Sayn*

Riprendiamo dalle pagine di inOltre Inoltre2024@gmail.com due articoli con posizioni opposte sul Ponte di Messina, questo di David Sayn e quello di Alessandro Tedesco, da leggere in parallelo, a riprova che può esistere un confronto non banale e ragioni profonde - contro e a sostegno - su un progetto controverso, emblematico di due visioni diverse dell’esistenza, del progresso e dell’ambiente.

In Copertina: Ponte sullo Stretto di Messina Rendering del progetto (Imagoeconomica)

 

Fra i temi che lo spirito del tempo ha più volentieri lasciato nelle mani di confuse ideologie «verdi» è anzitutto quello ecologico-urbanistico, sovente imbrigliato nella formula di una facile quanto ingenua «decrescita serena». Così, negli anni, il discorso intorno al Ponte sullo Stretto di Messina è stato fagocitato da ortodossie politiche, nel migliore dei casi bene intenzionate, nel peggiore capziosamente antagoniste. Si è favorevoli o contrari per istinto o per appartenenza, senza interrogare l’anima del progetto, senza sondare la fede riposta nella tecnica, assurta a redentrice del futuro.

Esiste però un campo d’indagine parallelo e raramente percorso, che sfiora l’aspetto forse più nascosto e trascurato della questione: la scomparsa della portata simbolica, della memoria di un destino comune, adombrante l’approdo in un universo privo di vincoli. Da quest’esplorazione appena sbozzata emerge l’irripetibilità di certi nessi fra uomo e ambiente, relegati ormai alla sfera dell’invisibile.

 

Oltre la soglia

Da principio, le parole. Ponte, dal latino ponspontis, risale al protoindoeuropeo pent-, «via, passaggio», secondo un senso orientato al movimento. In tedesco (Brücke) e in inglese (bridge), il termine richiama invece la radice bhergh-, «rialzare, sostenere»: più che strada, quindi, la «struttura sopraelevata» che lo rende possibile, fermando l’accento sull’elemento tecnico e statico.

Il greco antico si sottrae a entrambe queste logiche: ponte è γέφυρα, che significa anche «argine, diga» e «spazio che divide due eserciti», quasi a rivelare un’intuizione di fragilità nell’interruzione del naturale fluire. La radice pent– si ritrova in πόντος: il mare visto quale «via d’acqua», di per se stesso collegamento.

Il mondo greco, che nella mediazione fra proporzioni, ethos e rapporto fra uomo e divino aveva forse il suo cardinale fondamento, non si lasciò mai sedurre dalle implicazioni del lemma. Nei Persiani di Eschilo, il ponte di barche voluto da Serse marca addirittura la tracotanza del sovrano, fra le cause della sua rovina: «con dei ponteggi aggiogò l’Ellesponto, per creare un passaggio». Nulla di più lontano, insomma, dall’inflazionata retorica del «ponte fra culture», miraggio di uniforme e lineare progresso.

Quello che ancora non c’è, divenuto per l’Italia il Ponte per antonomasia, racchiude in sé ambizioni e necessità vere o presunte, inclusa la convinzione che accorciare distanze sia un assioma incondizionato, sciolto da ogni misura. Tali ambizioni dispensano giocoforza del concetto di soglia – οὐδός – limite che conferisce significato al luogo e nel quale si decide l’ingaggio, da varcare con attenzione o profanare con la forza dell’indifferenza. Ciascun principio – ἀρχή – ricorda Aristotele nella Metafisica, si istituisce in quanto limite, benché non tutti i limiti posseggano la dignità di un principio.

Del contesto che abbraccia ed eccede il paesaggio il Ponte è affronto estremo, emblematico dell’astrazione inerente allo sviluppo funzionale. D’altronde, l’avanzamento tecnico-economico suole accompagnarsi a una relativa demolizione del passato, perfezionatasi a partire dal secolo scorso in qualcosa di implacabile: il boom delle città e delle loro cinture, lo sfregio di coste e campagne, il cieco consumo di suolo che ancora imperversa.

Laddove non sfruttabile dal racconto estetico vigente, il quadro ambientale è considerato un sovrappiù. Talora, ed è il caso dello Stretto, lo si designa «ostacolo infrastrutturale» – sinonimo, appunto, di spendibile. In nome del profitto o semplicemente di un’efficiente, veloce comodità si è pronti ad appianare il pensiero e il circostante. E se tutto ciò passa sotto silenzio, è perché tale consapevolezza, come la nozione di finitudine e morte, è scivolata fuori dal sentire comune.

L’esperienza dello Stretto

Dietro questo silenzio è tuttavia un potenziale vitale che ragiona su lunghezze d’onda diverse. Espunta dal dibattito sul Ponte, ad esempio, è la singolare capacità dello Stretto di trasfondere in poesia pluralità insite fuori e dentro l’evento della traversata. Fra queste, l’immagine stessa di Sicilia, nei millenni isola fra tutte a noi distinta, separata da un tratto di mare minimo e persistente, regione di prova e cammino, archetipo di pericoli visibili e occulti, allegoria di una vita mediana, nelle cui correnti si mescola il confine tra due mondi, il Tirreno e lo Ionio.

La particolarità di un luogo è insieme teorica ed esperienziale. L’orizzonte interno accoglie il panorama e viceversa, come sa chi sia salito sul deck del traghetto, e, osservando l’altra costa approssimarsi, abbia scelto di ascoltare. Imbarcarsi non è (ma presto occorrerà dire: «non era») un mero trasferimento, ma l’ingresso in una pienezza sensibile altra, secondo una propria Stimmung. Nel superare lo Stretto si danno attese e, in esse, un radicamento percettivo: distanza è cardine del vivente.

Teoria e perdita del luogo

Lontananza fra le sponde, percezioni e mutamenti di luci e suoni, dinamicità e continuum: lenta intuizione del genius loci, grande e mai neutrale guardiano di umanità. Sua compagna è l’oikofilia teorizzata da Roger Scruton, l’amore per il locus che invita stabilità nel divenire. La perdita di questa sintonia è un male etico oltreché estetico: lo sfilacciamento del sentimento di responsabilità finisce per spezzare la corda che lega le generazioni, indebolendo echi individuali e culturali. Trasformazione non equivale ipso facto a eresia. Per Christian Norberg-Schulz «i luoghi cambiano, talvolta rapidamente, e ciò non comporta l’invariabile dissoluzione del genius loci. Qualsiasi luogo deve poter ricevere diversi “contenuti”, naturalmente entro certi limiti».

Continuità non è dunque immobilità conservativa: è ascolto diacronico e sincronico, che sappia cogliere insieme la profondità temporale e l’articolazione del mentre, nel rispetto del genius loci, da cui l’identità si determina in sempre nuove interpretazioni. Non mere coordinate geometriche, le relazioni qualitative che si danno nello Stretto abitano il corpo, si intrecciano nella psiche, risonanze vissute. Saggezza bachelardiana di spazio anche interiore, intimo, di rapporti diretti con gli elementi, di tempo dilatato.

Soppressa nel puro transito l’esperienza, si dà l’obliterazione del tópos (naturale, antropologico) e la creazione del non-luogo, nell’accezione di Marc Augé. Paradossalmente, collegando, il Ponte erode, come suggerito dall’ambivalenza del termine greco γέφυρα, con il suo richiamo al contenimento. Niente più confronto con l’alterità, niente più prima e dopo. Ne segue un calo della polisemia stratificatasi nella storia: l’«ostacolo» va annullato, e con esso l’intervallo, prerogativa dell’attraversamento con le sue scomodità, le sue prove di pazienza.

Paradigma tecnocratico e rovesciamento della cura

Abitare un luogo, esservi, richiede sollecita tutela, o «cura», affinché possa continuare a rivelarsi per ciò che è. Diversamente, alla sua riduzione funzionale segue la menomazione etico-ontologica di quella natura pluridimensionale inseparabile dall’avvicendarsi di pratiche e miti. Per Martin Heidegger, autentico «custodire» è affermare l’interstizio tra realtà, mantenerle aperte al disvelamento; è l’incombenza verso caratteristiche insostituibili e «si verifica quando noi […] lasciamo essere qualcosa nella sua essenza, la riconduciamo e ricoveriamo in questa essa […] la cingiamo cioè di protezione». Tale lettura introduce all’antica sacralità del sito: quel bisogno a lungo connaturato di circoscrivere ed onorare – l’elemento, il monte, il τέμενος, l’ara e il tempio – leggendo il prodigio nella natura, vivendone il mistero.

Per illustrare lo scambio virtuoso tra fabbricato e luogo, Heidegger ricorre all’esempio del «ponte sul fiume», in fittizio contrasto con quanto sin qui postulato: «il collegamento stabilito dal ponte fa sì che le due rive appaiano come rive. È il ponte che le oppone propriamente l’una all’altra». Lungi dal banalizzare o depauperare, un ponte vero rivela relazioni latenti.

Così il Golden Gate Bridge, completato nel 1937, sorto fra la baia di San Francisco e l’oceano Pacifico, in uno scenario non già saturo di trame possedute, ha potuto partorire un genius loci della modernità, capace di fondere la potenza tecnica con una nuova, forte carica identitaria. Non tutte le costruzioni possiedono tali virtù: talune, anziché amplificare il senso originario o crearne uno ex-novo, revocano quel limite che «non è il punto in cui una cosa finisce ma ciò a partire da cui una cosa inizia la sua essenza». È il caso dello Stretto.

Heidegger identifica due modalità capitali all’opera nella contemporaneità: Gestell, «l’impianto tecnologico ordinante», e Bestand, il «fondo disponibile». La tecnologia riorganizza l’universo come riserva pronta all’uso, priva di valore, «buona soltanto in quanto utile». Come il bosco numinoso – l’ἄλσος dei greci, l’aranya dei Veda – si tramuta in legname, così la montagna celeste diviene cava: perfette figure del rovesciamento.

Il «potenziale» che l’occhio surmoderno scorge nel reale traghetta allora da una visione ierofanica a quella utilitaristica; da iato introspettivo a continuità immediata verso il nulla. Un tempo, il sacrificio era ammissione, mediazione, atto ordinatore, gesti e parole conchiuse nel simbolo; ridotto a impedimento e svuotato il creato, ad essere sacrificato è infine il simbolo stesso.

Destinazione sconosciuta

Indistricabile dall’accettazione dell’inevitabilità del Ponte è la già menzionata concezione di progresso. Come il fondo dello Stretto sarà dragato, il suo ecosistema devastato, così quest’idea porta con sé l’annichilimento dell’anteriore, combusto nella ricerca e nell’imposizione di nuovi spazi vitali. Un secolo fa, José Ortega y Gasset, ammoniva: «Non c’è motivo di negare la realtà del progresso, bensì di correggere la nozione che lo vorrebbe sicuro. È più in accordo con i fatti sostenere che non vi siano progresso ed evoluzione garantiti senza la minaccia di “involuzione” e regresso».

Il discrimine fra surmodernità, epoca della dissociazione, e le precedenti è relativamente netto; l’involuzione affiora dove l’occhio sceglie di non posarsi. La persona odierna «sente la sua vita più vita di qualsiasi altra del passato», inteso quale insieme di futilità e di cui, senza troppi scrupoli, ha fatto tabula rasa. Da questa rimozione discende altresì l’inabilità a cogliere la divergenza costitutiva fra un ponte come il Golden Gate e quello proposto sullo Stretto di Messina.

Ci si potrebbe chiedere se l’apparente ineluttabilità di un dato sia ragione sufficiente per arrendervisi. Il dibattito, è noto, preferisce rifugiarsi nello slogan, evitando d’interrogarsi sulla legittimità del fine e sulla qualità di ciò che, lungo il cammino, è scartato. Soffocato nel Ponte, lo Stretto si vanifica, ché nello sviluppo orizzontale – rete autostradale, linearità autoreferenziale – il suo gratuito, verticale donarsi sfugge, e con esso la promessa di libertà insita nella sua immediata inservibilità.

Tabula rasa, si diceva: nemmeno più la prometeica soddisfazione di sottomettere una volta per tutte quei vecchi mostri dal nome di Scilla e Cariddi alle logiche della produttività. Abrogato, nei fatti, il substrato allegorico con i suoi prodigi, le sue tensioni, i suoi delfini, le sue lampare; chiusa e vinta, senza sforzo attivo, la partita a favore della razionalità strumentale: a tutto l’uomo si abitua, anche alla dimenticanza del suo essere-nel-mondo.

Nessun terremoto, si spera, abbatterà il Ponte: l’hybris è punita in modi più sottili. Quel che andrà perduto è già nel regno dell’indicibile e, in quanto tale, irrilevante. Non resta che prenderne atto e, per chi vorrà, piangerlo con discrezione.

Cultura e logistica

La trasformazione dello Stretto in corridoio logistico evoca un problema più vasto: l’analogo destino della sfera culturale, anch’essa oggi piegata a criteri di utilità immediata, indissociabili dal modello di progresso. In un recente intervento su queste pagine, fra i più intelligenti nella difesa del progetto, Alessandro Tedesco definiva l’aut-aut fra Ponte come veicolo economico e «cultura» un basilare errore, proponendo la seguente interpretazione della classicità:

«Atene non divenne il centro del mondo solo per le sue idee, ma perché la sua florida economia, basata sul commercio marittimo, le permise di finanziare una vita pubblica, artistica e intellettuale senza precedenti. La nostra cultura non è nata per partenogenesi, non si è alimentata di se stessa in un vuoto ascetico. È nata perché l’economia di quei popoli era tanto robusta da sostenere chi non produceva beni materiali, ma pensiero. Platone e Aristotele potevano filosofare perché l’economia della loro città funzionava. Non c’è alcun contrasto tra le due cose; al contrario, c’è un legame di causalità diretta. Pensare di poter invertire questa equazione, sostenendo la cultura a discapito dell’economia, significa ignorare la lezione fondamentale su cui si fonda l’intera civiltà occidentale».

Ora, bisognerebbe chiedersi se l’economia – allocazione di finite risorse – sia effettivamente sorgente di cultura, nonché cosa sia «cultura»: forse trasmissione viva di forme dapprima intangibili, di un ethos capace di plasmare una civiltà? Certo essa è inscindibile dall’educazione, o paideia, che Werner Jaeger definisce «rappresentativa di ogni sforzo antropico, giustificazione suprema dell’esistenza della comunità e dell’individualità umana», mezzo «per conservare e propagare il proprio tipo fisico e morale».

Il genio greco – creazione ante omnia spirituale fin nelle sue più concrete manifestazioni – trascende l’età dell’oro ateniese: Omero ed Esiodo, le scuole presocratiche, l’età dei Sapienti dopo la quale, a detta di Platone, è già il declino, nascono in contesti spesso agricoli o periferici. Atene fu Atene per il suo capitale radicato nell’ἀρετή, virtù aristocratica emersa dal medioevo ellenico. Il floruit economico di cui godette fu semmai fertile corollario della sua irripetibilità, non causa prima determinante: i massimi esiti scaturiscono dall’equilibrio tra forze materiali e immateriali. Altre póleis (Corinto, Samo, Sparta…) conobbero periodi di grande prosperità e scambi, senza per questo eguagliare la città di Pericle. Per Platone, il commercio è da asservirsi alla giustizia e all’armonia sociale; se preponderante, avverte, l’interesse potrebbe orientare la società verso il profitto a discapito della virtù:

«Da questo momento in poi, spingendosi sempre più nella dedizione alla ricchezza, quanto più ritengono questa degna di pregio, tanto più spregiano la virtù. Non è forse l’opposizione fra virtù e ricchezza come quella di due pesi posti sui piatti di una bilancia, che tendono sempre a farla inclinare in sensi contrari? […] Dunque, se in una città si celebrano la ricchezza e i ricchi, si apprezzano di meno la virtù e gli uomini buoni […] e si tende sempre ad occuparsi di ciò che viene onorato, mentre si trascura ciò che è disprezzato» (Repubblica, VIII, 550d-551a).

Come ogni cosa, il benessere non è davvero tale senza μεσότης, il giusto mezzo. In una realtà esclusivamente pragmatica, la razionalità strumentale tende a imporsi, finendo per abolire dimensioni altre, capaci di opporle un freno. La pioggia di miliardi che inonda le più influenti università statunitensi, ad esempio, non si traduce automaticamente in «cultura». Si potrebbe anzi asserire, con qualche buona ragione, che se ne dia maggiormente in una desolata valle del Tibet. Ricorda Saul Bellow che «una grande quantità di intelligenza può essere investita nell’ignoranza, ove il bisogno d’illusione sia profondo».

Non di rado all’apice dell’abbondanza corrisponde un incipit di decadenza: «La stabilità» – scrive Jaeger – «non è per sé stessa sinonimo sicuro di salute; domina anche in uno stato di irrigidimento senile, nel periodo tardivo delle civilizzazioni». Così il nitore dorico deborda negli eccessi di Pergamo; così, dopo gli ultimi gloriosi fuochi del Quattrocento, la schiatta medicea imbastardisce e l’opulenza fiorentina trascina il tardo Rinascimento nella maniera.

Di ethos condiviso, oggi, non c’è quasi più traccia. Rimane soltanto – metà di una coppia già dialettica – l’accumulazione che si proclama «progresso» e che a tutto conduce fuorché alla σωφροσύνη, armonia che la cultura dell’inseguimento ha rigettato, figlia dell’unità dei contrari. È nella comprensione e nel rispetto di queste tensioni che può fondarsi l’equilibrio. Che le opposizioni generino ordine è già in Eraclito, per il quale πόλεμος, il conflitto, è padre di tutte le cose: creativo, selettivo, indispensabile, esso è principio generativo di realtà. Il dibattito sul Ponte – o meglio, la sua assenza – è indizio di una società omologata e stagnante, priva di veri opponenti; divenuto impossibile mordere la realtà e procedere a nuove sintesi, permane il rischio di esserne morsi e perire d’inedia. La distruzione dello Stretto di Messina, senza alcuna recepibile obiezione, non è forse che l’ennesima riprova della disarmonia cui ci si è votati.

È possibile, si è detto, che il Ponte porti nuovo benessere, risollevi l’economia, che trasformi la Sicilia in novella Dubai, migliorando la vita di molti. Ma quale vita? Quella spesa nell’ipnosi del costume, quella di sopravvivenza, o ancora quella che – tornando a Ortega y Gasset – si vive come disciplina e che non ha sapore «se non al servizio di qualcosa di trascendentale»? Senza differenze qualitative, restano percorsi uniformi, fungibili, sempre più agevoli: l’agio sfocia nell’atrofia del polemos e, senza polemos, la sintesi si arena.

Se davvero nulla sfugge al calcolo, l’auspicio è che si conservi almeno la consapevolezza di ciò che, evaporando, ha finito per prosciugarci. Non c’è bisogno di scegliere fra Ponte e cultura, poiché quest’ultima ha cessato di esistere: offerta su un piatto d’argento dai suoi supposti tutori, si è resa come il lógos alla logistica. Distrutto il simbolo nel luogo, nasca pure del simbolo il simulacro. Ogni società, del resto, seleziona cosa preservare e costruire, rivelando nelle sue priorità ciò che è disposta ad abbandonare senza rimpianto. Nell’Odissea, al passaggio nello Stretto, spinto da Necessità a testare le frontiere della propria libertà, l’eroe è costretto a decidere quale perdita subire. Il contemporaneo sembra aver scelto, non tra due mali, ma di privarsi della tensione che dava senso al transito, del significato stesso della soglia.

 

*David Sayn scrive su Il Foglio e su InOltre

 

Fonti: Platone, Repubblica (380-370 AC); José Ortega y Gasset, La Rebelión de las Masas (1930); Werner Jaeger, Paideia. Die Formung des griechischen Menschen (1933-1947); Simone Weil, “En quoi consiste l’inspiration occitanienne?” (1943); Maurice Merleau-Ponty, Phénoménologie de la perception (1945); Theodor W. Adorno, Max Horkheimer, Dialektik der Aufklärung (1947); Martin Heidegger, Vorträge und Aufsätze (1957); Gaston Bachelard, La Poétique de l’Espace (1957); Theodor W. Adorno, Ästhetische Theorie (1970); Christian Norberg-Schulz, Genius Loci. Towards a Phenomenology of Architecture (1979); Marc Augé, Non-lieux (1992); Roger Scruton, The Face of God (2012).