FUTURO SOSTENIBILE
L’autore, Amministratore Delegato di Hera, ci invia una riflessione sulla transizione energetica ed ecologica, una sfida dalla complessità misconosciuta, che rischia di essere seppellita dalla retorica o sopraffatta da un dibattito ideologico (e banale) fra supposti “salvatori del pianeta” e “inquinatori”. C’è spazio, invece, per imparare a cogliere le opportunità che le tecnologie sapranno offrire a beneficio di tutti.
1. L’effetto “Melancholia”
Chi sono – oggi – i migliori amici della transizione energetica?
Visto che a parole la vogliono tutti, chiederselo mi pare doveroso.
Sono forse quelli che domani mattina spegnerebbero qualunque cosa comporti una qualche emissione e/o intacchi una pur minima parte del capitale naturale del pianeta per puntare, tutto e subito, sulle fonti più green che sia possibile immaginare?
O piuttosto sono quelli che da tempo – studiando queste stesse fonti, i loro attuali limiti strutturali e il complessivo equilibrio socioeconomico del sistema – stanno progettando forme di transizione più controllata, che nel condurre ad essa non lascino indietro alcuna porzione della società?
In un’epoca caratterizzata da dibattiti sempre più ideologici e sclerotizzati, dove tutto tende a polarizzarsi non perché le idee siano chiare ma perché altrimenti toccherebbe approfondire, forse è giunto il momento di andare un po’ controcorrente, dicendo – al limite – anche qualcosa di scomodo.
Chi come noi crede nella necessità di graduare la transizione, infatti, vorrebbe che fosse compreso, quantomeno, un punto irrinunciabile: la nostra non è la posizione di un’élite tenacemente affezionata alla propria impronta di carbonio. Tutt’altro.
Assieme a tanti, per esempio, io stesso lavoro già da parecchi anni in una direzione estremamente chiara, non solo assumendo pubblici e precisi impegni nel solco dei noti accordi di Parigi, ma anche attraverso un coerente e costante aggiornamento di modelli di business, strategie di sviluppo sostenibile e metodiche di reporting. La nostra azienda, in particolare, segue una traiettoria che, in linea con gli SDGs delle Nazioni Unite, ha ormai stabilmente sposato da 5 anni il paradigma di una crescente creazione di valore condiviso (già oggi superiore al 40% del margine operativo lordo complessivo) e si è spinta fino al punto di integrare il proprio “scopo” allo statuto stesso dell’impresa, un luogo non soltanto simbolico dove è cristallizzata – come un testimone da trasferire nel tempo - la sua più fondamentale ragion d’essere. Lo abbiamo fatto e lo stiamo facendo, certamente, con l’obiettivo di metterci nelle condizioni migliori per fare, da subito, la differenza, ma anche – in prospettiva – per incrementare continuamente qualità da cui oggi non è più possibile prescindere: sensibilità al contesto, agilità organizzativa e propensione all’innovazione.
Le varie transizioni ecologiche a cui siamo chiamati, inclusa quella energetica, non si calcolano infatti una volta per tutte ma dipendono e dipenderanno, in ogni momento, da una rotta che sarà importante poter correggere e affinare sulla base dell’evoluzione dei principali macrotrend e, in particolare, alla luce delle opportunità che le tecnologie sapranno offrire. Senza indulgere in alcun attendismo e, anzi, mettendo pienamente a frutto tutto quello di cui già disponiamo per dare il giusto abbrivio al cambiamento, occorre cioè – come ho ribadito anche altrove[1] – mettersi nelle condizioni ideali per “imparare ad imparare”, studiando ad esempio con estrema attenzione quel che si sta muovendo sulla frontiera delle cosiddette “clean tech”, cioè di quelle tecnologie pensate al preciso scopo di fronteggiare il global warming e – come tali – destinate a illuminare vie che in larga parte, oggi, non ci è ancora dato conoscere.
È quindi davvero miope credere che da un lato, sul versante dello switch-off totale, vi siano i soli e nobili santi che hanno a cuore le sorti del pianeta e che, sull'altro lato, vi sia invece un insieme tutto sommato indistinto di peccatori, nel quale anche "gradualisti" seriamente impegnati finirebbero per essere ricompresi fra i tanti soggetti che non intendono rinunciare alle proprie inquinanti rendite di posizione.
Contro questa falsificazione, da cui il dibattito pubblico potrebbe facilmente lasciarsi sedurre, intendiamo allora opporre e raccontare ciò che davvero anima il progetto di una transizione graduata ed equilibrata, anche a fronte di obiettivi veramente sfidanti. Lavoriamo ad essa - infatti – proprio perché abbiamo a tal punto nel mirino l'impronta di carbonio (quella nostra e quella altrui) da non voler intraprendere alcun percorso che non ci dia la fondata certezza di potercene effettivamente liberare o, almeno, di poterla significativamente e durevolmente alleggerire.
Per compiere una determinata traiettoria, in altre parole, bisogna prima guardare al problema. Chi, per troppa fretta, saltasse questo passaggio, azzardando una sorta di “all in” su una determinata soluzione, esporrebbe tutti noi al rischio di trovarci in una situazione peggiore di quella di partenza. Viene in mente quel che racconta il genio di Lars von Trier in Melancholia, quando un enorme asteroide in transito a pochi chilometri dalla Terra – da molti ritenuto innocuo – viene “acciuffato” dalla forza di gravità del nostro pianeta prima che l'inerzia del suo proprio movimento gli permetta di uscire definitivamente dal campo di cattura oltre il quale stava cercando di sfilare, finendo così per venirci addosso.
Lars von Trier, Melancholia, 2011
Non vorrei trovarmi, in particolare, a dover vivere l'esperienza di John, personaggio del film che all'improvviso, attraverso un banale strumento di misurazione ottenuto dal figlio con un filo di ferro attorcigliato, si accorge di come Melancholia, invertita la propria rotta, punti dritto, senza ulteriori margini di salvezza, contro di noi.
2. Contro il caro-energia e verso la carbon neutrality
Il rischio che corriamo con la transizione energetica, tuttavia, è proprio questo, perché essa non avviene sottovuoto e, senza alcuna tregua, deve piuttosto misurarsi – en plein air - con forze ambientali, politiche, economiche, culturali e sociali di segno volontariamente o involontariamente contrario, che da ogni parte tendono a inibirla. Evitiamo allora, quantomeno, di aggiungerci ad esse per mera pigrizia intellettuale, e finiamola – una buona volta – di raccontarci che, per raggiungere l’obiettivo finale, la strada sia già oggi così chiara e nitida da consentirci di “battezzare” un singolo e solo “silver bullet”, come se questo potesse davvero imprimere alla transizione tutta la quantità di moto necessaria al suo scopo. Parafrasando Magritte, insomma, ceci ne serait pas une transition.
Senza nulla togliere al valore e all'importanza delle fonti rinnovabili, assolutamente essenziali nel disegno complessivo, occorre dunque adottare una postura culturale di tipo diverso. Negli interessi delle rinnovabili stesse, dobbiamo cioè fare attenzione agli effetti globalmente derivanti dalla loro integrazione operativa all’interno di organismi sociali ed economici che fino a ieri, piaccia o meno, non le prevedevano e che, soprattutto, non si sono mai seriamente posti il problema di come prepararsi al giorno in cui non potremo contare che su quelle.
Il periodo che stiamo attraversando, peraltro, finisce per esacerbare i termini della questione. Gli stessi a cui la transizione sembra possibile nel volgere di una notte, infatti, staranno probabilmente pensando che l’attuale picco di prezzo del gas e dell’energia elettrica offra ulteriori argomenti alle loro tesi, imponendo uno switch off ancora più immediato. Nessuna fonte rinnovabile, tuttavia, ci consentirebbe – ora come ora – di alimentare le filiere e i consumi sostenuti invece dal gas, né peraltro sarebbe in grado di farlo nel giro di qualche mese o anno.
Va inoltre complicandosi una questione in qualche modo storica, relativa cioè a quanto e come si possa effettivamente modulare la produzione di energia da fonti rinnovabili, la cui disponibilità – oltre ad essere soggetta alle note variazioni stagionali – è oggi ulteriormente minacciata dagli effetti indotti dai cambiamenti climatici. Basti pensare alla siccità che nel 2021, in Brasile, ha limitato il potenziale idroelettrico del Paese oppure, nello stesso anno, alla minor ventosità che nel Nord Europa ha ridotto il contributo dell’eolico. Sono casi isolati, certo, ma dipendono da un trend di lungo corso che va consolidandosi e dinanzi al quale, senza arretrare di un solo passo sulla strada del cambiamento, bisogna farsi trovare pronti. Questo vuol dire, come minimo, predisporre piani di remediation (o Piani B) che – nel mettere a terra un attento lavoro di previsione e gestione strategica del rischio - non si precludano alcuna strada, facendo tesoro di tutto quello che può essere ancora opportunamente valorizzato.
In un simile contesto, l’unica cosa che del gas va contrastata in maniera strutturale è quindi la dinamica rialzista dei prezzi, e questo affinché gli attori stessi della transizione – cioè le economie e le comunità senza le quali essa, banalmente, non può avvenire – non collassino su se stesse prima di aver centrato il bersaglio.
Le misure tampone adottate in questo periodo dai governi dei Paesi europei, come i circa 17 miliardi di euro finora stanziati dal governo Draghi, possono certamente traghettarci per qualche mese, tutelando soprattutto – nel breve periodo – le utenze e le imprese più esposte. Non va dimenticato, tuttavia, il fatto che tali misure aumentano la spesa pubblica a carico di tutti[2], distraggono risorse da investimenti che potrebbero rilanciare – anziché medicare – l’economia e, infine, incidono solo su alcuni dei sintomi della crisi, senza aggredirne le cause.
In un contesto complicato dalla crisi ucraina, con il Cremlino sempre più tentato a destinare il proprio metano verso oriente, l’Europa non può quindi restare al palo e deve assolutamente attivarsi per evitare che la carenza di gas inneschi meccanismi del tutto antitransizionali. Mi riferisco a episodi che in questi ultimi mesi, purtroppo, si sono già verificati, come testimoniato dal crescente ricorso al carbone, di cui il Vecchio Continente – per garantire l’energia necessaria – ha recentemente toccato un allarmante picco di produzione come testimoniato anche dall’andamento dei prezzi della CO2. Sul filo di questo insostenibile attendismo ci stiamo quindi giocando tanto, anzi troppo: il portafoglio delle famiglie, certo, ma anche la competitività delle imprese e, non ultima, l’aria stessa che respiriamo, gravata da incrementi sostanziali e inattesi della CO2 emessa in atmosfera.
Che fare, dunque?
2.1 - L’offerta di gas
In primo luogo, sarebbe importante che la tecnocrazia di Bruxelles superasse le ambiguità che la stanno attanagliando sul capitolo della tassonomia, uno strumento che nasceva per sostenere gli investimenti utili alla transizione e che, di fatto, è invece divenuto il teatro e l’arma di un conflitto politico incapace di produrre indirizzi chiari e coerenti. Rimane così inevasa la necessità di investimenti e accordi che possano dare ossigeno all’offerta di gas, bilanciare la crescita della domanda ed evitare che l’attuale crisi dei prezzi diventi strutturale, scenario che – per inciso – vanificherebbe gli sforzi titanici che su prezzo e disponibilità del vettore sono stati profusi dalla stessa Unione Europea attraverso il Recovery Fund[3].
Sarebbe poi di enorme aiuto una maggiore diversificazione degli approvvigionamenti, che vada a consolidare e incrementare lo stesso potenziale del TAP – senza il quale, peraltro, i prezzi sarebbero ancora più alti di quelli che stiamo registrando e la disponibilità insufficiente. Occorre però superare alcune resistenze, fra cui spiccano quelle sul gasdotto Nord Stream 2, che certamente non aiutano – per usare un eufemismo – a contenere le quotazioni. La scelta di “accettarlo” è stata fatta molti anni fa, usarlo oggi come arma negoziale è solo benzina all’incertezza e dunque alla volatilità dei prezzi.
Se grazie al concorso di tutti Bruxelles riuscisse a muoversi compattamente in questa direzione, potremmo creare condizioni che incrementerebbero la disponibilità di gas, vincolandone le attività di stoccaggio e calmierandone il prezzo non già in deroga bensì grazie a un meccanismo di mercato. E fra i beneficiari, evidentemente, ci sarebbero anche e soprattutto le casse degli Stati membri, su cui – come anticipato – stanno gravando le misure “lenitive” via via adottate da questo o quel governo.
I comparti più energivori del settore industriale, all’interno dei quali c’è anche una quota importante del made in Italy che sta giustamente reclamando attenzione, sono d’altronde caratterizzati da processi produttivi che esigono temperature pressoché irraggiungibili con l’elettricità e quindi proprio il gas appare l’unico vettore che può davvero scongiurare il rischio della loro implosione.
A queste realtà, ma non solo ad esse, si potrebbe ovviamente andare incontro anche con l’idrogeno, un vettore tecnologicamente contiguo al gas e che nel medio/lungo periodo – assieme al biometano – potrebbe “verdeggiare” una quota importante di quei consumi energetici di tipo termico che sono indispensabili a tanti stabilimenti industriali. Il condizionale tuttavia è d’obbligo, perché il quadro normativo di riferimento è ancora molto acerbo e, lontano da una logica efficacemente espansiva, sembra prigioniero di asfittiche prospettive “puriste”, cui sfugge il/la proverbiale “big picture”.
Vanno sciolti, tanto per cominciare, alcuni nodi gordiani che pregiudicano la coerenza fra le definizioni espresse dalle varie direttive europee e rendono sostanzialmente inagibile il campo da gioco: è infatti evidente a chiunque che l’idrogeno ottenuto dalla frazione biogenica del rifiuto non può essere “rinnovabile”, come espresso dalla Direttiva RED II e III, e al tempo stesso non “verde”, secondo i dettami invece della bozza della Direttiva Gas.
Occorre poi superare i rigidi vincoli implicati dal principio di “contemporaneità”: qualificando come “verde” il solo idrogeno prodotto simultaneamente all’energia rinnovabile impiegata dal suo elettrolizzatore, infatti, tale principio appare oggi del tutto sordo alle esigenze di impianti e stabilimenti che non possono prescindere dalla continuità, “h24”, della fornitura energetica e dalla necessità di far partire questa nuova filiera. Un po’ paradossalmente e contro ogni buona intenzione ascrivibile al principio, finiscono così per essere ingigantiti – anziché bypassati – i limiti più naturali e inemendabili di vettori come l’eolico o il fotovoltaico, con effetti che rischiano di inibirne la domanda e complicarne seriamente le prospettive di sviluppo.
Congiuntamente, e con lo stesso spirito, andrebbe poi resa più flessibile la ratio del principio di “addizionalità”, in ragione del quale viene vincolata la produzione di idrogeno alla produzione in situ della energia rinnovabile aggiuntiva. Una simile impostazione, oltre a trascurare i vincoli legati alla localizzazione delle imprese utilizzatrici, impedisce di valorizzare tanti asset già esistenti, a partire ad esempio dai termovalorizzatori, capaci di produrre una quota di energia elettrica rinnovabile che, grazie alla piena continuità e programmabilità, può ottimizzare il costo di produzione dell’idrogeno. Per soddisfare il principio di addizionalità sarebbe sufficiente, infatti, studiare dei meccanismi di compensazione che, “pareggiando” l’energia prodotta dal termovalorizzatore per alimentare l’elettrolizzatore con quella altrove immessa in rete da un impianto fotovoltaico, garantiscano i saldi energetici complessivi e il profilo autenticamente “verde” dell’intero ciclo.
Più in generale, il gas non va inteso o traguardato come un obiettivo in sé stesso, di cui davvero ci interessa poco, quanto piuttosto come un vero e proprio “vettore di transizione”, di cui servirsi in maniera pragmatica, strategica e mirata per tenere in salute il sistema socioeconomico, alimentando i suoi volumi di affari e, in definitiva, la sua capacità di esprimere risorse economiche, sociali e di innovazione che sono indispensabili alla transizione stessa. Il tutto ha però bisogno di un’attenta politica di foresighting che sganci il gas dalla difesa di qualche rendita di posizione e se ne serva, all’opposto, per garantirci effettivi passi in avanti, favorendo – tanto per cominciare – l’uscita dal carbone.
2.2 - Efficiency first
Come qualcuno ha notato, poi, il grande assente dai dibattiti sul caro-energia è l’efficienza energetica, un fronte di interventi che in realtà è decisivo sia per quanto riguarda l’incidenza dei suoi benefici ambientali, già ampiamente dimostrata, sia per il contenimento dei costi a cui può dare luogo. A buon diritto, insomma, l’efficienza energetica può essere considerata come il combustibile più economico e ambientalmente sostenibile che abbiamo oggi a disposizione, il più veloce – soprattutto – nel dispiegare i suoi effetti. Diminuendo la domanda di energia, infatti, l’efficientamento energetico riduce la bolletta, le emissioni climalteranti e l’erosione del capitale naturale del pianeta, ma incrementa anche – di riflesso – la quota percentuale del consumo complessivo di energia che può essere coperta dalle sole rinnovabili. E c'è di più: se infatti la logica è quella di capire – rebus sic stantibus – come consumare meglio, quel che occorre e che, pertanto, viene sollecitato è un tipo di innovazione intelligente, leggera, che senza riempire con ulteriori e nuovi device un mondo già saturo lo mette anzitutto nelle condizioni di servirsi meglio di quello di cui già dispone.
Peccato però che, proprio in materia di efficienza energetica, gli orientamenti di Bruxelles, tendano a mordersi un po’ la coda, senza corrispondere - in particolare - alle corrette premesse da cui pure muovono. Se da un lato la direttiva sull’efficienza energetica inviata dalla Commissione al Parlamento Europeo contiene infatti misure sensate, che per esempio rafforzano il principio aureo dell’efficiency first, dall’altro lato si fatica a capire perché quella stessa direttiva disponga che dopo il 2025 non possa più essere riconosciuta, premiata e quindi incentivata l’efficienza ottenuta su apparecchiature o impianti che funzionano con combustibili fossili. Sono proprio questi, infatti, gli asset intervenendo sui quali l’efficienza energetica può fornirci il massimo valore aggiunto di cui è capace, abbattendo nel minor tempo possibile la domanda complessiva di energia e creando così un terreno favorevole alle rinnovabili. Perché queste rinnovabili – dobbiamo dircelo – non potranno mai soddisfare i bisogni di un mondo che nel frattempo non abbia imparato, partendo dal singolo cittadino e arrivando alla grande impresa, a consumare meno e meglio. Ce lo conferma l’IEA, che anche rispetto al 2021 ha mostrato come il tasso globale di crescita delle rinnovabili non regga il passo di quello dei consumi, costringendoci – per la quota scoperta – ad intensificare il ricorso alle fonti fossili. È quindi importante risolvere ogni contraddizione che, come in questo caso, metta a rischio lo sviluppo dell’efficienza energetica e che, prefigurando la fine degli incentivi alla stessa, inibisca le leve finanziarie che le danno forza. Uno scenario, peraltro, a cui le alterne fortune normative dei certificati bianchi – ad oggi il miglior strumento mai ideato per lo sviluppo dell’efficienza energetica – ci hanno purtroppo abituato da tempo, complicando – ad esempio – il lavoro delle cosiddette Energy Service Company e aggiungendosi a un ulteriore elemento di criticità che, almeno in Italia, è dato da una perdurante e scarsa propensione di piccole e medie imprese agli investimenti in sostenibilità.
2.3 - Energie rinnovabili
In tutto questo, ovviamente, non bisogna esimersi da una convinta promozione delle energie rinnovabili, la quale deve però avvenire all’interno di un percorso di crescita razionale, armonico e inclusivo. Non conviene a nessuno, ad esempio, nascondere sotto il tappeto i limiti operativi di queste fonti, che vanno piuttosto adeguatamente dimensionati, affinché sia possibile capire come bypassarli, utilizzando a questo scopo anche le dotazioni infrastrutturali di cui già disponiamo – comprese quelle del gas, avvantaggiando in questo anche lo stesso idrogeno o soluzioni come il “power-to-gas” inserite all’interno di impiantistica come i sistemi di depurazione.
L’importante, comunque la si pensi, è astenersi da inutili battaglie ideologiche che, fuori da ogni autentico spirito ambientalista, rischiano di vanificare la compiuta valorizzazione delle risorse di cui dispone un Paese, incluse le biomasse e i rifiuti residui, che possono essere recuperati non soltanto sotto forma di energia elettrica ma anche come feedstock per la produzione di biocombustibili. Del resto, se davvero vogliamo traguardare una effettiva rigenerazione delle risorse del pianeta e perseguire un utilizzo sostenibile del suo capitale naturale, riciclo della materia e recupero energetico devono necessariamente trovare percorsi comuni, sviluppandosi entro strategie integrate che, nel segno di una stessa ratio di fondo, coinvolgano tutte le filiere necessarie, orientandole a obiettivi di sistema e di lungo periodo.
Gli operatori del comparto pronti a lavorare in questa direzione non mancano, ma anche qui occorre che il loro campo da gioco sia tracciato con intelligenza e, nel tempo, mantenuto solido e coerente. Soprattutto, più che imporre - per decreto – il ricorso a questo o quel vettore, secondo logiche antistoriche e tecnocratiche che si concentrano sempre su sezioni estremamente limitate del problema generale, occorre lavorare alla definizione di norme che – facendo chiarezza sugli obiettivi finali - lascino a tutti gli attori un’adeguata libertà di movimento, foriera – da sempre - di partnership e innovazione. Solo così, infatti, potremo consentire al mercato delle rinnovabili di crescere con le proprie forze, incoraggiandone la domanda e dando perciò sbocchi concreti alle opportunità indicate da uno sviluppo tecnologico che non può vivere, all’infinito, di qualche estemporanea stampella o di sussidi che durano quanto la fioritura dei peschi.
3. Lessons learned
Riflettendo su queste considerazioni, e consegnandole al lettore affinché le possa ulteriormente far germogliare, mi chiedo anche se non sia possibile ricavarne qualche piccola lezione, da tenere a mente per affrontare meglio le sfide che ci attendono e nelle quali, anzi, siamo già perlopiù impegnati. Si tratta di conclusioni tutt’altro che esaustive e alle quali giungo soprattutto in forza della mia più diretta esperienza sul campo, non solo nella speranza che alcune chiavi di lettura elaborate in seno al mondo delle utility possano valere, almeno parzialmente, anche in altri comparti, ma soprattutto con l’augurio che ciascuno, nel suo proprio ambito, possa articolare fino in fondo la transizione – energetica e più in generale ecologica - per la quale è chiamato a spendersi, riconoscendone la complessità.
3.1 - Economia circolare e transizione energetica
In primo luogo, mi appare evidente come l’economia circolare non abbia più alcun motivo per giustapporsi – come una sorta di missione parallela – alla transizione energetica, ma sia piuttosto chiamata ad essere spirito, logica e metodo di quest’ultima.
3.2 - Evoluzione qualitativa delle multiutility
Se guardo in avanti, ecco che il futuro mi appare tanto più possibile e felice quanto più costruito nel segno di grandi integrazioni funzionali fra filiere dissimili.
Dirò di più: chi lavora nelle multiutility, e lo fa provando a gettare il cuore oltre l’ostacolo, si sta rendendo conto di come le sfide della transizione stiano contribuendo a far evolvere qualitativamente il profilo multibusiness di queste aziende. Faccio un esempio: se immetto nelle reti del gas un biometano che ho ottenuto prelevando l’idrogeno dall’acqua e combinandolo con un biogas che mi deriva dalla digestione di alcuni rifiuti, vuol dire che ho dato vita a un processo del tutto trasversale alle vecchie divisioni fra comparto idrico, comparto ambiente e comparto rifiuti. I comparti, anzi, in quanto tali si compenetrano nello sviluppo di soluzioni articolate a problemi complessi.
Lungi da me, peraltro, pensare che tutte le possibili convergenze siano già state scoperte. Quello con cui abbiamo a che fare, molto più verosimilmente, è un enorme giacimento di conoscenza inespressa, solo minimamente intaccata e in attesa di essere portata in superficie, favorendone e non vincolandone l’emersione.
3.3 - Cooperare, sempre
Ecco anche perché, tutte le volte che ne ho l’occasione, invito i miei stessi colleghi alla massima cooperazione di cui sono capaci: sono infatti convinto che tavoli di lavoro animati da culture, sensibilità e professionalità diverse – se ispirati da un purpose chiaro – possano moltiplicare il valore delle intelligenze in gioco e rivelare, come del resto stanno già facendo, margini imprevedibili di innovazione e sviluppo. Volendo un po' esagerare la mia esperienza diretta, anzi, potrei quasi dire che oggi non ci occorrono più gli esperti dei rifiuti da una parte e poi, da un'altra parte, gli esperti dell'idrico e gli esperti dell'energy. Ci occorrono, semmai, esperti di transizione ecologica, a cui quei comparti possono effettivamente concorrere solo operando in squadra. Ma ho la netta sensazione che tutto questo valga o possa valere anche al di là del mondo utility. Per come la vedo io, in altre parole, la vera sfida consiste nell'essere ferrati non solo sulla mansione da cui siamo fisicamente occupati ma soprattutto sul suo obiettivo ultimo, perché è proprio questo ad affacciarci su campi professionali altri, esterni alla nostra comfort zone e, nondimeno, interessati da una medesima necessità di fondo.
3.4 - Educazione alla complessità
Il messaggio più forte che emerge da questi scenari, però, è forse un altro, e invita tutti a noi a diffidare di chi, per problemi tanto sfaccettati come quelli legati alla transizione energetica, provi a venderci risposte e soluzioni semplici. C'è anzi spazio per una grande educazione alla complessità, che insegni – in questo come in altri ambiti – a leggere oltre i titoli e ad andare oltre il tifo, perché solo così potremo affrontare sfide sempre più multifattoriali come quelle che caratterizzano la nostra epoca. Sono sfide, è bene dircelo, di cui tutti noi abbiamo appena cominciato a mappare l’articolazione, ma lo facciamo con tutto l’entusiasmo possibile e, intuendo la mole del lavoro che resta da fare, ci auguriamo di farlo, anno dopo anno, all’interno di una squadra sempre più ampia e motivata.
Una squadra dove nessuno, soprattutto, sia costretto a sedersi in panchina.
NOTE
[1] Cfr. Stefano Venier, “Allenarsi al cambiamento”, Macrotrends 2021-22, Harvard Business Review Italia
[2] Va inoltre tenuto presente che, proprio mentre scriviamo, si sta riaprendo una discussione che era stata temporaneamente interrata, quella cioè relativa al Patto di Stabilità, alla sua revisione e alle modalità con le quali i Paesi membri dell’Unione Europea dovranno programmare il rientro dal debito contratto per mitigare i tanti impatti dell’emergenza sanitaria. Non solo: contro i pronostici di alcuni, le posizioni rigoriste dei cosiddetti “falchi” – non prive di loro fondate ragioni di complessivo equilibrio del sistema - non sono affatto sparite.
[3] Cfr. Romano Prodi, “La transizione (divisiva) in cui ognuno pensa per sé”, Il Messaggero, 13 febbraio 2022.