TRANSIZIONE ECOLOGICA GLOBALE
Le emissioni globali di CO2 continuano ad aumentare nonostante la capacità installata di pannelli fotovoltaici (e di eolico) risulti ogni anno moltiplicata a livello mondiale e gli investimenti in fonti rinnovabili sovrastino quelli in fonti fossili. L’Astrolabio torna sull’argomento dell’impronta carbonica dei pannelli cinesi cioè di quanta CO2 viene emessa per produrli.
In Copertina :Foto Unsplash
La tecnologia fotovoltaica rappresenta una delle punte di diamante dell’attuale strategia globale di contrasto al cambiamento climatico. La sua capacità di convertire la luce solare direttamente in elettricità, senza l'ausilio diretto di combustibili fossili, la rende una soluzione all’apparenza intrinsecamente sostenibile. Tuttavia, come ogni prodotto industriale, anche un modulo fotovoltaico porta con sé un "bagaglio" di emissioni di gas serra generate durante il suo intero ciclo di vita: dall'estrazione delle materie prime alla fabbricazione dei componenti, dall'assemblaggio finale al trasporto, fino al suo smaltimento o riciclo.
Ed è qui che il quadro si fa, per usare un eufemismo, un po' più sfumato, soprattutto quando si punta il microscopio sulla produzione cinese. La Cina, oggi, è il vero e proprio motore della filiera fotovoltaica globale, dominando la produzione di silicio, celle e moduli. Questa leadership indiscussa comporta indubbi vantaggi in termini di costi e volumi, ma solleva anche interrogativi significativi riguardo all'impatto ambientale di questa industria.
In questa fase incerta qualcuno potrebbe pensare che l’impronta carbonica dei pannelli solari e l’intensità carbonica dell’energia fotovoltaica (cioè quanta CO2 viene emessa per ogni kWh prodotto) non siano temi di così cogente attualità, visto le tante nubi che si addensano all’orizzonte.
Mi permetto di dissentire.
Sull’intensità carbonica delle fonti energetiche non solo è disegnata la transizione energetica - che per come è disegnata ha dato un contributo decisivo alla crisi di competitività dell’Unione Europea - ma è anche fiorita la cosiddetta finanza verde, un Leviatano che gestisce migliaia di miliardi di euro e che oramai è diventato una bomba a orologeria.
Di conseguenza, è bene tenere a mente che quando parliamo di questo argomento stiamo parlando sì di impatto ambientale ma anche di competitività, strategia e soldi. Un mare di soldi.
Ciò che emerge dalla rassegna della letteratura scientifica, istituzionale e commerciale è un panorama contraddittorio e fuorviante, che non risponde ai criteri minimi di trasparenza e replicabilità richiesti dalla ricerca scientifica.
Ma facciamo un passo indietro. Gli studi che fanno questo genere di analisi si chiamano analisi del ciclo di vita (Life Cycle Assessment, LCA) e si basano su una metodologia che, neanche a dirlo, si chiama analisi del ciclo di vita (Product Life Cycle Assessment, PLCA).
L’analisi del ciclo di vita di un prodotto mira a quantificare gli impatti ambientali associati a un bene attraverso l'analisi dettagliata, dal basso verso l’alto, dei processi industriali e degli input (energia, materiali) che servono a fabbricarlo.
Una delle principali sfide risiede nella raccolta dei dati. Ottenere informazioni precise e aggiornate sui consumi energetici, sull'efficienza dei processi produttivi e sulle emissioni specifiche di tutti i fornitori lungo l'intera catena del valore è pressoché impossibile.
A causa di queste difficoltà, si è generato un cortocircuito al limite dell’incredibile: tutti partono dallo stesso inventario di processi e input, raccolto vent’anni fa in fabbriche europee (Ecoinvent). E parliamo di centinaia di articoli, rapporti e certificazioni di sostenibilità.
Per capirci, è come analizzare un Mac degli anni ‘80 per capire come è fatto un laptop Lenovo di ultima generazione.
Tuttavia, nonostante la fonte primaria sia quasi sempre la stessa, i risultati in letteratura variano di circa un ordine di grandezza, da 300 kgCO2/kW a 3.000 kgCO2/kW.
Questa apparente contraddizione è dovuta al fatto che il perimetro dei modelli, la caratterizzazione degli input e le caratteristiche del sistema variano di studio in studio.
L’IPCC, per esempio, calcola da oltre dieci anni l’impronta di carbonio dei moduli fotovoltaici come se fossero prodotti a cavallo tra la Norvegia e la Germania, utilizzando energia idroelettrica, gas naturale, altra energia idroelettrica e addirittura calore di scarto. Di carbone non c’è traccia. D’altra parte, la scelta è coerente: l’industria fotovoltaica europea vent’anni fa funzionava così. Tuttavia, attualmente poco meno del 90% dei moduli fotovoltaici viene prodotto in Cina, prevalentemente con energia da carbone.
L’UNECE, invece, calcola l’impronta carbonica dell’energia fotovoltaica a partire dall’analisi del ciclo di vita dei pannelli in silicio policristallino, nonostante rappresentino circa il 5% del mercato fotovoltaico globale (casualmente sono più semplici da produrre rispetto a quelli in silicio monocristallino, che rappresentano il 90% del mercato).
I produttori cinesi poi - che casualmente ottengono i risultati più bassi - integrano l’inventario di Ecoinvent con dati proprietari. Tuttavia, non specificano quali e non pubblicano gli inventari, quindi dobbiamo fidarci dei certificatori (che per il loro servizio sono pagati da coloro che ottengono le certificazioni).
Alcuni studi includono tra gli input energetici solo l’elettricità, escludendo il calore e il vapore (che di solito costituiscono oltre la metà del fabbisogno energetico di un impianto industriale).
Altri escludono le sostanze chimiche, nonostante l’industria fotovoltaica ne consumi una grande quantità, tra cui alcune sostanze tra le più climalteranti che esistano (come l’esafluoruro di zolfo, che ha un impatto “riscaldante” sul clima che è 20.000 volte più grande di quello della CO2). A onor del vero, nessuno include le emissioni di altri gas climalteranti oltre alla CO2.
Il novero dei beni strumentali (capital goods) - che andrebbero rendicontati proprio come avviene in un bilancio economico - di solito si limita al calcestruzzo, all’acciaio e ai mattoni utilizzati per la costruzione degli impianti (mattoni???).
Eppure, i tour virtuali all’interno delle fabbriche mostrano macchinari imponenti, come le torri di condensazione in cui viene purificato il silicio, o di precisione, come quelli che modificano la superficie delle celle attraverso il laser. E poi ci sono i climatizzatori (in quel genere di ambienti si lavora a temperatura controllata), attrezzature elettroniche di ogni tipo, persino droni. Il recente reportage di Presa Diretta (Rai 3) dalla Cina è eloquente, e mostra solo gli interni di una fabbrica di celle fotovoltaiche, quindi solo uno dei vari step che conducono a un modulo fotovoltaico.
Tra l’altro, tutti questi macchinari consumano energia. Di base, una clean room (un ambiente sterile, a temperatura controllata etc) consuma 25/100 volte più energia per metro quadro di un ambiente industriale normale. Eppure, sembra che normalmente questi consumi ausiliari e ancillari non siano inclusi negli inventari. “Sembra”, perché mancano i metadati e quindi questo dubbio dobbiamo tenercelo. Una zona grigia rimarchevole!
Insomma, un panorama surreale, soprattutto alla luce del fatto che su questi prodotti abbiamo investito qualche migliaio di miliardi di euro, sulla base della certezza che siano ecosostenibili e producano elettricità a basse emissioni (low-carbon).
La narrativa rinnovabilista si è riempita la bocca per anni con lo scandalo Dieselgate. Su questo buco nero invece non solo chiude un occhio ma costruisce narrative deleterie e sempre più surreali.
In Cina la produzione di acciaio e cemento diminuisce ma il consumo di carbone aumenta. Oramai anche l’Agenzia Internazionale dell’Energia inizia a sospettare che l’industria verde c’entri qualcosa.
Intanto ci ritroviamo qui, l’ennesimo anno in cui la capacità installata solare ed eolica aumenta vertiginosamente, gli investimenti green sovrastano quelli fossili e pure le emissioni di CO2 aumentano.
E a nessuno sorge un dubbio.
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Nota a margine dell’autore:
Da oltre tre anni cerco di portare all’attenzione dell’opinione pubblica e del decisore le ombre che circondano l’ecosostenibilità dei pannelli fotovoltaici.
Due anni fa ho pubblicato un white paper in cui documentavo le numerose zone d’ombra e incongruenze che caratterizzano questo argomento. Il white paper ha innescato un’inchiesta giornalistica internazionale ed è stato ripreso dai media di mezzo mondo, dall’Inghilterra alla Norvegia, dal Giappone agli USA, raggiungendo decine di milioni di persone.
Tuttavia, una prepotente reazione (social: Twittocrazia) della comunità green - basata prevalente sul character killing - è riuscita a mettere nel congelatore l’argomento, complice anche il fatto che la media dei comunicatori non sembra capire che chi ha lo stipendio pagato, direttamente o indirettamente, dalla narrativa green non dovrebbe essere considerato un esperto ma un portatore d’interesse. Io ho sbagliato a non querelare ma speravo che questo aiutasse lo sviluppo di un dibattito più costruttivo.
Acqua passata.
Imperterrito, mi sono messo al lavoro per pubblicare i risultati della mia ricerca su una rivista scientifica Q1 (le riviste più autorevoli). Dopo un primo, ampio, round di revisioni informali mi sono reso conto che un singolo articolo non era sufficiente per analizzare a fondo la questione; quindi, ho optato per una serie di quattro articoli, che verranno pubblicati ciascuno presso un publisher diverso, su rivista Q1 e in open access.
Il mese scorso è uscito il primo, su Energies, che analizza le numerose incongruenze che caratterizzano le stime dell’impronta carbonica dei moduli fotovoltaici made in China, cioè di quanta CO2 viene emessa per produrli.
Spero che questo spazio su L’Astrolabio consenta di innescare un dibattito costruttivo su questo gigantesco problema, anche perché la “diluizione” del formato mi ha permesso di affrontare la questione più in dettaglio.
*Ricercatore e analista. Founder della piattaforma di microconsulenza Getconsulting. Autore di “La decarbonizzazione felice”