REWIND. IL “LUNGO FALLIMENTO” VERDE (III)
“Nel triennio 1989-92, i verdi si riposizionavano nell’area dell’estremismo, rigettavano lo slogan “né a destra né a sinistra”, perdevano o estromettevano l’ala riformista. E dunque dicevano agli elettori: la nostra novità è finita, siamo quelli di sempre, gli estremisti che tornano. Il punto formale di svolta nel 1991, in occasione della guerra del golfo. Erano tutti contro gli Usa e l’Onu; se ne dissociò in parlamento solo Rosa Filippini, che venne di fatto espulsa”.
Il processo di involuzione del movimento si è realizzato in Italia in maniera rapida e appariscente, condensando in pochi anni ascesa ed eclissi. Due fattori si sono rivelati decisivi. Sul piano associativo, la crescita di Legambiente, lanciata nel 1980 all’interno del movimento dal Pci attraverso l’Arci, con un notevole patrimonio di sedi, militanti e risorse finanziarie; essa aprì un canale di comunicazione tra il nuovo, gracile movimento e il grosso del “popolo di sinistra”. Sul piano partitico, l’operazione che nel 1989, cioè nel momento di maggiore popolarità dei verdi, portò all’emigrazione dei gruppi di estrema sinistra (ma parteciparono anche Rutelli ed altri radicali) nelle loro liste elettorali.
Per un decennio Legambiente non è riuscita a prevalere, né tra le ONG, né nel partito verde. A lungo sfuggente sui più controversi temi ambientali, quali il nucleare e la caccia, per barcamenarsi tra le posizioni del movimento e quelle del Pci; alla retroguardia nelle maggiori iniziative ambientaliste, compresa la presentazione di liste verdi; impegnata anzi nel 1991-93 nel sabotare il nostro referendum sui controlli ambientali, questa associazione non si è mai distinta per capacità di iniziativa politica. Se alla fine è riuscita a conquistare un’egemonia che oggi appare assoluta, ciò è avvenuto grazie all’alleanza con l’immigrazione di sinistra e a una geniale operazione di marketing e di pubbliche relazioni, che ha prodotto effetti miracolosi sulle carriere dei suoi esponenti e sul controllo dell’informazione ambientale in Italia. Grandissimi, in questo.
Cronache italiane
A partire dai primi anni ’90, la cosa verde finiva saldamente in mano ai gruppi di estrema sinistra e a Legambiente. Resistevano solo i padroncini delle liste verdi, in forza non di una diversa politica, ma dei pacchetti di tessere che decidevano l’ingresso in parlamento. In verità, l’immigrazione di sinistra configurava, se così si può dire, una sostituzione di soggetti ma, per quanto riguarda la cultura politica, non innescava veri conflitti. I verdi non costituivano una forza politica matura e stabilizzata, erano un soggetto precario e rissoso, fortemente condizionato da pregiudizi ideologici. Protestatari di professione, pacifisti anti Usa, forcaioli con Mani pulite, se non ci fosse stata quell’operazione difficilmente avrebbero preso posizioni politiche diverse. La loro novità poggiava su elementi non duraturi: un linguaggio politico naïf, le facce nuove dei primi eletti nelle istituzioni, la promessa stucchevole e irreale di un’alternativa ai partiti. Una novità dunque d’immagine, quindi superficiale e precaria, che però aveva incontrato i favori di un elettorato stanco dei vecchi partiti. Anche perché il messaggio risultava rafforzato dall’affermazione della “trasversalità” rispetto agli schieramenti partitici.
Essere trasversali significava privilegiare i problemi di contenuto, fare del riformismo. L’immigrazione “rossa” bloccò questa prospettiva con la messa in minoranza delle posizioni realiste. Si rafforzava così l’immagine di un partitino minoritario, che si situava nell’area alquanto inflazionata dell’estrema sinistra. Il fatto ebbe anche un altro impatto, che va segnalato: la fine di quella militanza “leggera”, formata cioè da simpatizzanti che si avvicinavano per la prima volta alla politica, che volentieri aiutavano nelle campagne tematiche ma che mai avrebbero accettato una vita di partito con le sue risse, le sue manovre, la conta delle tessere e via dicendo. Se ne andarono, e il peso dei gruppettari aumentò ancora di più. Alla fin fine, quel che contava era che bastavano poche tessere per conquistare un seggio in parlamento. E questo i “giovani panda” lo avevano capito benissimo.
Nel triennio 1989-92, i verdi si riposizionavano nell’area dell’estremismo, rigettavano lo slogan “né a destra né a sinistra”, perdevano o estromettevano l’ala riformista. E dunque dicevano agli elettori: la nostra novità è finita, siamo quelli di sempre, gli estremisti che tornano. Il punto formale di svolta nel 1991, in occasione della guerra del golfo. Erano tutti contro gli Usa e l’Onu; se ne dissociò in parlamento solo Rosa Filippini, che venne di fatto espulsa.
La parabola politica dei verdi sta tutta nei numeri elettorali: alla prima prova, nelle elezioni regionali del 1985 ottennero il 2% dei voti; nelle politiche del 1987 il 2,5% , nelle europee del 1989, più del 6% con due liste: le Liste verdi (3,8%) e i Verdi Arcobaleno (2,4%). Tre anni dopo, nelle politiche del 1992, i consensi calarono al 2,8% e diminuirono ulteriormente nelle elezioni successive. Commentava nel 1992 Alex Langer: dopo 5 anni di presenza parlamentare e con milioni di elettori che si sono staccati dal voto tradizionale, abbiamo preso solo briciole.
In questo contesto proibitivo, un discorso di tipo riformista avrebbe avuto bisogno, per affermarsi, di una condizione: trovare nelle istituzioni interlocutori seri e credibili, aperti alle innovazioni, per concorrere a costruire alternative dentro il sistema. E ci fu un momento in cui la classe politica italiana – parte della Dc, ma soprattutto il Psi di Craxi – si aprì al confronto, ponendo le premesse per un inserimento del conflitto ambientale nell’agenda delle riforme. D’altra parte era stato il governo Craxi a nominare nel 1983 un ministro per l’ecologia e a istituire nel 1986 il ministero per l’ambiente, avviando il recupero a tappe forzate del pesantissimo ritardo italiano. Poi, nel 1986-87, il momento più intenso di dialogo tra il partito di Craxi e il movimento ambientalista, a sostegno del referendum contro il nucleare.
L’apertura fu troncata dal crollo della prima repubblica. Dopo di allora, non c’è più stato vero confronto politico sui temi ambientali; se non, da parte delle sinistre, l’inserimento dei verdi nel cartello dell’Ulivo. Nessuna trattativa politica sui contenuti, neanche quando i verdi nel 1996 entrarono nei governi ulivisti. La questione ambientale è fuoruscita così dalla politica.
Le colpe della politica
La questione dell’ambiente e dell’ambientalismo va oltre la storia ingarbugliata e minoritaria dei partiti verdi, oltre il loro magro bottino di voti. Si tratta di un complesso di problemi di diversa valenza – economica, culturale, sanitaria – e di portata strategica, ad esempio le risorse energetiche, quelle idriche e quelle ancora più decisive dell’innovazione tecnologica; problemi che, nel loro insieme, investono la sicurezza dell’economia e della società, le scale di priorità dei governi, il modo di usare il proprio territorio, trasformandolo o conservandolo, il ruolo che s’intende sostenere nel mondo per contribuire al superamento delle crisi globali.
Si tratta anche di un movimento di opinione tra i più vasti della storia recente, che ha la sua culla d’elezione in Europa ma è capillarmente presente in tutto l’occidente e, con variabilissima consistenza, in America Latina, in Asia e persino in Africa, laddove comincia ad affacciarsi la democrazia o almeno una qualche apertura dei regimi. In politica, a parte il caso tedesco, non ha conseguito grossi successi ed è perciò trascurato dagli osservatori politici. Anche per questo non si è colto per tempo, ad esempio, l’apporto decisivo dato dai verdi all’affermazione dell’ideologia no-global, né l’importanza della prima frattura tra Europa e Stati Uniti che si verificò all’indomani del crollo del Muro di Berlino, alla conferenza di Rio del ’92, proprio sui temi dell’ambiente.
È peculiare di questo movimento l’interscambio continuo con le burocrazie pubbliche, nazionali e internazionali, con le imprese, con settori del mondo scientifico e con gli operatori della comunicazione ambientale. Ma la sua caratteristica più notevole, quella che ne fa un caso d’interesse generale, è la critica antagonista all’occidente, alla sua economia, alla sua società. È un paradosso di cui non pare preoccuparsi: mette radici ed estende il suo consenso seguendo l’avanzare nel mondo della democrazia e dello sviluppo, cioè del modello occidentale, trae gran parte delle sue risorse e della sua influenza dal rapporto con le istituzioni e con le imprese capitalistiche, ma nello stesso tempo ne è il critico più irriducibile.
Se non è un protagonista della politica, il movimento ambientalista lo è sicuramente nel campo delle idee. Protagonista negativo in verità, dal momento che, non riuscendo a tradurre le tematiche ambientali in una visione del mondo originale, ha ripreso i canoni espressivi tipici della guerra di classe e con questo vecchissimo format ha creato la Grande Balla: un tipo di comunicazione che va alla grande, basata su un intreccio inestricabile di verità e invenzioni, su un uso disonesto dei dati scientifici, sull’allarmismo sistematico, su una generale ispirazione antioccidentale.
Dei temi ambientali, filtrati attraverso pregiudizi ideologici secolari, si è visto solo quel che si voleva vedere; le vicende dei due secoli successivi alla rivoluzione industriale sono interpretate come una corsa cieca verso il precipizio, l’innovazione tecnologica è identificata con il male, ogni problema viene spacciato per una caratteristica incorreggibile dell’economia occidentale, una catastrofe scongiurabile solo con un cambio di sistema. Con questo messaggio si toglie significato alle politiche pubbliche sull’ambiente – interpretate come fiori all’occhiello, inganni di un meccanismo perverso – e si fornisce la giustificazione teorica per un attacco culturale all’occidente: l’attacco più fanatico di tutti, in quanto lo si accusa di distruggere il pianeta e, con esso, le basi fisiche, biologiche e culturali della vita umana.
Parlano in questi termini di quello sviluppo e di quella civiltà che hanno liberato le masse dell’occidente dalla miseria, ampliato come in nessun’altra epoca il dominio della democrazia, reso possibili miglioramenti importanti nella tutela dell’ambiente. Parlano di quell’insieme di paesi chiamato occidente che è l’unica parte del mondo in cui si praticano sistematicamente politiche di protezione ambientale. Questi stessi progressi vengono presentati come cataclismi demoniaci, la vita dell’uomo liberato dalla miseria e dall’arbitrio come una via crucis senza speranza. Persino un fatto indubbiamente positivo, quale la crescita demografica determinata dal miglioramento delle condizioni di vita, viene presentata (per la verità, non solo dai verdi ma anche da autorevoli opinionisti) come una delle peggiori catastrofi.
Se l’ossatura del messaggio è questa, diventa rischioso tracciare una casistica tra i soggetti che l’alimentano e le varie gradazioni di estremismo cui danno voce. Si tratta di sfumature diverse all’interno dello stesso quadro: forse esistono fanatici ragionevoli, ma non sono migliori degli altri e fanno confusione. Chi loda i Grünen tedeschi in contrapposizione ai verdi nostrani dimentica che si batterono persino contro l’unificazione tedesca. Legambiente, in Italia, fa come Arafat, che dice una cosa in arabo e un’altra in inglese; fa discorsi ragionevoli negli incontri con le istituzioni e le imprese ed usa i toni fondamentalisti nelle occasioni militanti; avalla con la sua presenza qualsiasi iniziativa del movimento, anche quelle con le parole d’ordine più estreme. Grida alla catastrofe ambientale se c’è una giunta comunale di destra e tuba graziosamente con le giunte di sinistra. Dice no al deposito di scorie radioattive a Scanzano, ma è determinata nel sostegno alle torri eoliche, che senza risolvere in alcun modo il problema energetico fanno scempio del paesaggio nazionale. Il suo può essere considerato un fondamentalismo elastico e ben programmato.
Il caso Lomborg
Con uno studio da certosino, Biørn Lomborg ha dimostrato che il messaggio ambientalista è fondato su una falsificazione sistematica della realtà. Non fatevi trarre in inganno dal titolo del suo libro, “L’ambientalista scettico”. Non si tratta infatti di uno dei tanti casi in cui i cultori di una materia si scontrano con un critico “negazionista”. Lomborg non è un nemico della tutela dell’ambiente, è un ambientalista convinto e un esperto; le sue posizioni politiche sono quanto di più corretto si possa immaginare. Non nega i problemi ambientali, ma tenta di individuarne i termini reali; e lo fa sul terreno meno opinabile, quello della statistica, con un’analisi rigorosa basata sui dati ufficiali.
Dice Lomborg: “Le motivazioni che mi hanno indotto a scrivere questo libro non hanno niente di perverso né di occulto. Ritengo, forse ingenuamente, che una democrazia possa funzionare meglio se tutti hanno accesso alle migliori informazioni possibili. Non può essere nell’interesse della società che un dibattito su una questione vitale come l’ambiente si basi su miti anziché sulla verità”. Lo scopo è di aiutare a prendere le decisioni migliori per il futuro e stabilire le priorità nella destinazione delle risorse sulla base dei dati effettivi e non della propaganda.
Lomborg sottopone a verifica l’assunto base della teoria ambientalista: lo sviluppo economico produce un continuo peggioramento dello stato dell’ambiente, suscita crescenti pericoli per la nostra salute, peggiora le nostre condizioni di vita, aggrava la miseria nelle parti più sfavorite del pianeta. L’analisi statistica condotta sui principali indicatori del benessere - speranza di vita, salute, alimentazione, reddito – dimostra che la comunicazione ambientale è basata in gran parte su gravi distorsioni della realtà.
Lomborg esamina quindi il secondo caposaldo della propaganda ambientalista: questo progresso non può essere mantenuto e incrementato, non è cioè “sostenibile”. Anche su questo punto, l’analisi statistica smentisce i luoghi comuni. Non c’è motivo di temere crisi o scarsità alimentari: al contrario, le risorse alimentari costeranno meno e un numero più alto di persone vi avrà accesso. Le stime correnti sulla distruzione delle foreste non sono fondate e comunque, se si vogliono tutelare le foreste tropicali, il modo c’è: “mettere mano al portafogli”. Le previsioni di un esaurimento delle fonti energetiche fossili sono contraddette dai dati disponibili; e lo stesso vale per le risorse non energetiche. Anche per le risorse idriche, non si prospettano crisi inevitabili o problemi ambientali insormontabili.
Lomborg passa quindi a esaminare un terzo problema: lo sviluppo economico comporta necessariamente un aumento degli inquinamenti? Esaminando i dati relativi all’inquinamento dell’aria, alle piogge acide, all’inquinamento idrico, a quello indoor, ai rifiuti, alla perdita di biodiversità, alle allergie e all’asma, agli effetti cancerogeni degli agenti chimici, egli dimostra che nei paesi industrializzati la minaccia dell’inquinamento si è venuta attenuando negli ultimi decenni.
Per Lomborg, questo non significa che tutto vada per il meglio e che non sia più necessario impegnarsi per migliorare l’ambiente. Bisogna ancora migliorare, ad esempio, la gestione delle risorse e affrontare problemi quali la tutela delle foreste e delle acque, l’inquinamento atmosferico e il riscaldamento globale. Ma i dati corretti aiutano a concentrare l’impegno sui punti giusti e a non decidere sulla spinta delle emozioni.
Lo stesso criterio viene applicato al problema dei problemi, l’asso nella manica di tutti i catastrofismi: il riscaldamento globale, dagli anni ’90 tema centrale del dibattito ambientale nel mondo. Lomborg critica l’approccio generale alla questione e i toni da crociata, la scarsa credibilità degli scenari che vengono presentati al pubblico. E denuncia: il tema del riscaldamento globale è utilizzato come un trampolino per far passare obiettivi politici più ampi, in chiave anticapitalistica, e riproporre modelli sociali sconfitti dalla storia. Contro le proposte adottate a Kyoto, basate sull’abbattimento delle emissioni di carbonio per mezzo di tasse, quote e divieti, Lomborg sostiene che si trarrebbero maggiori benefici, anche dal punto di vista del clima, aumentando in misura consistente gli investimenti per accelerare la sostituzione dei combustibili fossili con energie rinnovabili e pulite.
Ecco, dunque, in che cosa consiste l’eresia di Lomborg. Egli mette in vetrina la scarsa credibilità del movimento ambientalista, dei media e di quegli ambienti scientifici che propinano all’opinione pubblica vere e proprie menzogne, e lo fa in modo serio e convincente.
(3. Continua)