ANTROPOLOGIA ALIMENTARE
Dalle pagine de Linkiesta.it , riprendiamo un’originale riflessione su come abbiamo dimenticato che la carne arriva dagli animali. Dall’uccisione domestica al supermercato, un viaggio nell’alienazione alimentare contemporanea.
In Copertina: ©Getty Images for Unsplash
Fino a pochi decenni fa, nelle campagne italiane, macellare il maiale era un evento collettivo e carico di significati. L’animale, allevato con attenzione e spesso chiamato con un nome, diventava quasi un membro della famiglia. La sua uccisione, necessaria alla sopravvivenza, coinvolgeva parenti e vicini, rafforzando il senso di comunità. Il rituale, infatti, aiutava a gestire simbolicamente il delicato rapporto tra la vita e la morte, consolidando legami sociali e familiari.
Oggi questa pratica appare distante e quasi inconcepibile. La maggior parte delle persone, infatti, acquista carne già pronta, confezionata e priva di qualsiasi riferimento diretto all’animale d’origine. Questo fenomeno, definito dagli antropologi come alienazione alimentare, indica il progressivo distacco emotivo e culturale dall’origine animale del cibo. Questa incapacità moderna di affrontare l’uccisione diretta degli animali nasce dall’evoluzione della società contemporanea, che ha profondamente modificato il nostro modo di rapportarci con la natura e la morte.
Secondo Piero Camporesi, un ruolo decisivo in questa trasformazione l’ha avuto il passaggio dai mercati locali ai supermercati. Nei mercati rionali, infatti, il consumatore aveva un rapporto diretto con macellai e allevatori, era testimone del processo di macellazione e comprendeva chiaramente la provenienza degli alimenti. Con la diffusione dei supermercati, invece, la carne è diventata anonima, separata fisicamente ed emotivamente dal suo ciclo naturale, facilitando una crescente inconsapevolezza dei consumatori sul reale processo che porta il cibo sulle loro tavole.
Questo il punto di vista dello studioso: «Al mercato, in un tempo che non è soltanto quello dell’acquisto, del prendi ed esci, ascoltando, annusando, esercitando forme di conoscenza non convenzionali, si può anche imparare e riflettere. Lo scambio non è soltanto merceologico ma culturale. Spettacolo, divertimento, approfondimento, il mercato offre, a chi lo osserva non distrattamente, i segreti dei mestieri, delle tecniche, della parola, del gesto.
“Il macello è stata la prima scuola di anatomia, il primo osservatorio della dissezione del vivente, il primo punto di catalogazione degli animali. E anche il mercato può essere scuola superiore polivalente, anche quando insegna alla scuola dell’astuzia, della scaltrezza, della furberia, affinando l’ingegno, l’osservazione, la vigilanza, l’attenzione. I saperi del mercato, come tutti i processi culturali, si trasmettono attraverso i mediatori, i maestri, il dialogo: fra il compratore e la cosa desiderata è frapposto il mediatore, interprete, trasmettitore e conoscitore.
“Il supermercato invece è il luogo dell’immediato, in cui fra il cliente e le cose esposte non si trova nessun informatore, nessuna voce, nessuna presenza mediatrice. Ognuno rimane solo con le sue tentazioni. […] Vi domina, unico sovrano legittimo e riconosciuto, il potere d’acquisto e la moltiplicazione, spesso gratuita, immotivata. Spazio controllato e chiuso, luogo della non partecipazione, dell’acquisto condizionato, non contrattato, istintivo e gregario, della presenza passiva, trappola da percorsi obbligati, dalla quale si può uscire se la logica dell’acquisto viene rispettata. Il mercato, se il dialogo langue, può trasformarsi in teatro animato, pulsante. In vita».
L’antropologo Franco La Cecla sottolinea che la carne oggi è diventata una commodity, ovvero un bene di consumo generico, privo della sua originaria carica simbolica. Nella cultura contadina e nella storia alimentare, la carne non era soltanto cibo, ma rappresentava forza, vitalità e fertilità. Il suo consumo era limitato a momenti speciali, festività e celebrazioni, sottolineando la sua importanza rituale e sociale. Mangiare carne significava anche entrare in un ciclo naturale di nascita e morte, in cui la comunità riconosceva la propria continuità e sopravvivenza attraverso il sacrificio animale. Oggi, questo significato simbolico è andato perduto, lasciando spazio a una relazione più superficiale e utilitaristica con il cibo.
La questione oggi non è solo pratica, ma anche etica e culturale. In questo contesto si inserisce il dibattito, spesso polarizzato, tra carnivori e vegetariani o vegani. La contrapposizione tra chi rivendica il diritto di consumare carne e chi ne contesta la legittimità morale ed ecologica rappresenta una frattura simbolica profonda nella società contemporanea. Da un lato c’è chi difende la carne come parte integrante della tradizione alimentare e dell’identità culturale; dall’altro chi rifiuta ogni forma di sfruttamento animale, promuovendo modelli alimentari alternativi come espressione di giustizia e sostenibilità.
In realtà, entrambe le posizioni condividono una stessa esigenza: quella di fare pace con la consapevolezza della morte e del sacrificio. Se per i vegani il rifiuto della carne è un modo per sottrarsi al ciclo della violenza, per molti carnivori l’imbarazzo o la rimozione dell’atto della macellazione è una strategia di distanziamento psicologico. In merito Richard Bulliet parla di sensibilità “post-domestica”: consumiamo carne ma preferiamo ignorare la realtà del sacrificio animale, creando un conflitto morale latente che influenza profondamente il nostro modo di percepire il cibo. Questa tensione tra la volontà di consumare carne e l’incapacità di affrontarne le implicazioni etiche rappresenta una delle principali contraddizioni della nostra società.
Una risposta concreta e influente a questa situazione arriva dagli studi e dalle pratiche sviluppate da Temple Grandin, nota etologa americana (bellissimo il film del 2010 a lei dedicato “Temple Grandin – Una donna straordinaria”) che ha trasformato la propria capacità di comprendere i segnali non verbali e i comportamenti ripetitivi degli animali in un punto di forza per ripensare l’intero sistema della macellazione industriale. Grandin ha progettato strutture e percorsi ispirati ai movimenti naturali del bestiame, riducendo stimoli che generano paura e stress e migliorando in modo significativo il benessere animale.
I suoi sistemi – oggi adottati in oltre la metà dei macelli degli Stati Uniti – non si limitano a cambiare la logistica del macello, ma rappresentano una rivoluzione nel modo in cui l’uomo si rapporta all’animale nel momento più delicato, quello della morte. L’idea che anche l’ultimo tratto di vita dell’animale debba essere dignitoso, privo di panico e sofferenza, implica un recupero, seppur tecnico, di quella ritualità perduta che un tempo accompagnava l’uccisione domestica. La sua etologia applicata si traduce così in un’etica concreta, che riconosce la responsabilità umana non solo nell’allevamento, ma anche nell’atto finale del consumo.
Il pensiero di Grandin offre anche una lezione fondamentale: un maggiore rispetto per gli animali non nasce necessariamente dal rifiuto del loro uso alimentare, ma dalla consapevolezza del nostro ruolo e delle conseguenze delle nostre scelte. In questo senso, le sue teorie possono rappresentare un punto di incontro tra posizioni opposte – quelle dei carnivori consapevoli e dei vegetariani/vegani attenti alla dignità animale – aprendo un varco a un dialogo più maturo e costruttivo.
Questo approccio potrebbe rappresentare una soluzione concreta e sostenibile per affrontare quella alienazione alimentare che caratterizza il nostro quotidiano.
Riscoprire il valore autentico del cibo e riavvicinarsi con consapevolezza all’origine di ciò che portiamo sulle nostre tavole non è solo una sfida etica, ma anche un’opportunità per ritrovare un legame autentico con la natura e la nostra stessa umanità. Riflettere sul nostro rapporto con la carne significa affrontare domande scomode ma necessarie: siamo pronti a capire davvero cosa mangiamo e da dove proviene? Siamo disposti a modificare le nostre abitudini per garantire maggiore benessere agli animali e al pianeta? La risposta a queste domande determinerà non soltanto il nostro futuro alimentare, ma anche il tipo di società che vogliamo diventare. Forse, è proprio iniziando da piccoli gesti quotidiani e da scelte informate che possiamo avviare un cambiamento profondo, recuperando così quella dimensione simbolica e comunitaria che rendeva il cibo un elemento fondamentale della vita sociale e culturale.
*Lucia Galasso è antropologa dell’alimentazione. È autrice del volume Storia e civiltà del pane (Espress Edizioni, 2022)