LA SUA ABBONDANZA NE SANCISCE LA CRISI
Questo articolo, apparso recentemente su “Industria Energia” esamina i fattori che stanno dietro l’inarrestabile discesa del prezzo del petrolio, per concludere che questa volta non si tratta del tradizionale andamento ciclico del suo mercato, ma di una crisi irreversibile, che lo porterà ad essere sostituito dal gas naturale, così come a sua volta ha sostituito il carbone. Un destino ineluttabile, che, secondo Gavagnin, non potrà essere contrastato neppure dai prezzi bassi, peraltro ormai necessariamente contenuti entro il tetto massimo oltre il quale torna ad essere economicamente conveniente lo shale oil americano. Si tratterà dunque di gestire questa transizione, ad evitare che avvenga nel panico dei mercati e causi fallimenti a catena.
Il petrolio è finito, ma non sono ovviamente finite le molecole di petrolio. Anzi, il problema del petrolio è proprio che ce n’è troppo. Talmente tanto che scotta tra le dita, i produttori non lo stanno vendendo, se ne stanno liberando. Come i pacchetti azionari nella Wall Street del 1929!
Cederlo a qualunque prezzo per continuare a dare comunque un valore ai giacimenti, quelli che giustificano i finanziamenti e il possesso da parte delle banche delle azioni delle compagnie petrolifere. E che finanziano i bilanci degli Stati produttori. Un brivido corre lungo la schiena dei banchieri: e se i giacimenti di petrolio fossero ormai investimenti stranded? Costi irrecuperabili?
Molti analisti ci ricordano che è sempre stato così, che il mercato del petrolio è ciclico, che a una fase di abbondanza con prezzi bassi e pochi investimenti è sempre seguita una fase di scarsità con prezzi alti e ritorno degli investimenti. Finanziati dalle banche, sicure del rialzo dei prezzi, magari basati su contratti di acquisto con prezzi definiti per 20-30 anni, oggi improponibili.
Sicuri che andrà così anche questa volta?
Viene citato il caso degli anni ’70, quando i bassi prezzi avevano (anche) l’obiettivo di fermare lo sviluppo del nucleare. Funzionò? Certamente in Italia, difficile dirlo per gli altri Paesi industrializzati, che comunque arrivarono ad una quota media del 30% di atomo, oltre la quale ci sarebbero stati problemi di flessibilità.
A parte gli Stati Uniti, dove il nucleare privato si fermò ma per motivi di incertezza regolatoria dopo i primi incidenti, il nucleare era comunque possibile in presenza di monopoli pubblici, con investimenti garantiti dagli Stati. Esemplare il caso della Francia, non più in grado di rinnovare il proprio parco centrali, nel nuovo contesto di sia pur timida apertura dei mercati.
Ora il petrolio non si confronta più con le decisioni degli Stati, ma con il mercato. Quello vero, fatto dalla volontà e dagli umori dei consumatori. E i consumatori dicono che il petrolio, ottimo fino a ieri, oggi è brutto, sporco e cattivo.
Il sogno attuale è l’autosufficienza energetica, anche delle famiglie, da fonti rinnovabili, autoproduzione diffusa e efficienza spinta con l’uso di tutte diavolerie elettroniche che chiamiamo domotica. Riduzione dei consumi con lo stesso benessere, case a costo energetico zero. Sole, vento, onde del mare, geotermia, “materie prime” senza oneri.
Tutta l’industria automobilistica spinge per motori che consumano e inquinano sempre meno, impazzano le auto ibride e cresce l’attesa per l’auto elettrica, adesso che le prestazioni sono simili se non migliori dei motori a scoppio. Resta la fiducia nel progresso tecnologico, e tutti pensano che il problema delle batterie e del rifornimento veloce di elettricità presto si risolverà.
Nel mondo occidentale l’auto non è più lo status symbol di una volta e l’impatto emotivo dello scandalo Volkswagen, che sarebbe passato sotto silenzio o quasi solo una decina di anni fa, ci dice quanto siano cambiati l’umore e la sensibilità dei cittadini verso la qualità dell’aria che respiriamo.
Adesso che Cina e India hanno impostato il proprio percorso di sviluppo e le statistiche sui loro consumi futuri diventano più affidabili, come i trend di crescita demografica, si vede che il petrolio basta e avanza, l’idea fissa degli statistici dell’OCSE che tutti i nuovi consumatori avrebbero consumato come noi nell’era d’oro del petrolio viene smentita ogni giorno.
I nuovi consumatori consumano molto meno, ne più ne meno come stiamo facendo noi. Cento chilometri con un litro! E’ il nuovo mantra.
Resta l’incognita dell’Africa, del suo modello di sviluppo. Beh, una industrializzazione che parte dai cellulari già ci dice che seguirà un percorso molto diverso dai nostri storici. Per gli economisti e gli ingegneri del mondo energetico prevale sempre il rapporto tra costo e beneficio economico. Ma se il driver del consumatore non fosse più il prezzo ma la sensibilità ambientale? E per le imprese il verde nel brand?
La sorpresa drammatica è che al crollo del prezzo del petrolio di questi mesi il mercato non risponde con una esplosione di consumi, come sempre ci si attendeva e succedeva. L’efficienza energetica non ha ancora trovato il suo posto nelle statistiche.
Come se non bastasse il petrolio è finito e sarà abbandonato anche perché c’è ed è disponibile l’alternativa, in quantitativi tali da poterlo soppiantare in pochi decenni. E’ il gas naturale, di gran lunga meno inquinante e impattante, utilizzabile vantaggiosamente pure in tutti i processi della petrolchimica.
Il carbone sostituì la legna, il petrolio ha sostituito il carbone, il gas naturale sostituirà il petrolio, in attesa a sua volta di essere sostituito, da miscele di metano e idrogeno, o di metano e ossigeno liquidi, dal tutto elettrico da rinnovabile. Vedremo.
Intanto è necessario prendere atto che non c’è più spazio per entrambi questi idrocarburi – perché tale è e resta anche il gas naturale – e che tra un prodotto più pulito all’origine, come il gas naturale, ed uno che richiede sempre maggiori interventi chimici per essere confrontabile con esso, vince sempre il primo.
La battaglia dei diesel super raffinati è persa in partenza. Se non altro perché i costi di pulizia del gas naturale che esce dal giacimento e quelli per renderlo liquido sono ormai standard e non possono che scendere, mentre quelli della raffinazione sempre più spinta del petrolio non possono che crescere.
Lo scorso 23 marzo, quando prevedemmo la media dei greggi OPEC a 25 dollari (OLTREILCONFINE – L’ultimo ciclo) già supponevamo che i produttori di idrocarburi avrebbero dovuto scegliere tra petrolio e gas naturale, quanto accaduto negli ultimi 10 mesi rende questa decisione non solo ineludibile ma anche molto urgente.
E ciò che è accaduto è che il mercato ha fissato la soglia di prezzo oltre il quale il petrolio non potrà più andare, che sono i 55$ della convenienza economica alla riapertura dei giacimenti di shale oil degli USA. Riaprire quei rubinetti, e non c’è dubbio che accadrà, vorrà dire re-inondare il mondo di petrolio, in aggiunta a quello iraniano.
Sta in piedi l’industria petrolifera mondiale, e soprattutto come abbiamo detto la raffinazione spinta, con questi livelli di prezzo sul lungo e lunghissimo periodo? In presenza di una alternativa facile facile come il gas naturale?
È chiaro che anche il gas naturale ha in parte gli stessi problemi e che prezzi troppo bassi possono ridurre gli investimenti, anche se questi – soprattutto per la logistica del GNL – sono unitariamente molto più bassi e dilatati nei vari paesi. Insomma non c’è bisogno delle enormi raffinerie.
In ogni caso il valore che assumerà il gas naturale come sostituto del petrolio sarà quello che deciderà il marcato, che troverà l’equilibrio che garantisce gli investimenti e prezzi che rifletteranno i costi. Ciò che va ribadito è che non c’è più posto per una industria del petrolio e una parallela industria del gas naturale.
In ogni caso niente di drammatico, è quanto accaduto e si sta accentuando con il carbone, sempre più abbandonato nonostante abbia ancora i prezzi più bassi tra tutti i fossili. Rinunciamo al carbone per motivi ambientali e di salute pubblica, non perché stia finendo. Il petrolio dovrà seguire un percorso analogo.
Però il panico dei mercati può fare molto male, può portare a fallimenti di oil company e di banche a ruota, e sarà bene che qualcuno si ponga il problema e cerchi di gestire la transizione al dopo petrolio. L’Europa? L’ONU? La strada c’è, è quella indicata al COP 21 di Parigi, un grande accordo internazionale di tassazione uniforme e unica delle emissioni non solo di CO2, ma anche di polveri sottili, zolfo e azoto.
A quel punto il petrolio in 10-20 anni andrà fuori mercato senza grandi sconquassi, subentrerà il gas naturale mentre tutte le altre tecnologie saranno libere di concorrere tra loro ad armi pari, cioè interiorizzando la propria impronta ecologica.
Una tassa che chiaramente dovrà rispettare i principi dell’analisi del ciclo di vita del prodotto, perché non è più tollerabile produrre beni “pulitissimi” massacrando territori come abbiamo fatto con la Sicilia, la Sardegna e qua e là in tutta Italia.
Dopodiché porto fiori al monumento del petrolio, cosciente che è grazie a lui se vivrò una trentina di anni di più di quanto avrei potuto prevedere a metà dell’800, quando fu attivato il primo giacimento.