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2025-02-13 09:40

La “Gerarchia dei Rifiuti” e i Rendimenti Decrescenti

POLITICHE EUROPEE

di: 
Antonio Massarutto

La piramide rovesciata disegnata dall’Unione Europea per dettare le priorità dei sistemi di gestione dei rifiuti è stata spesso interpretata in modo dogmatico e fuorviante. L’autore, professore al Dipartimento di Scienze Economiche dell’Università di Udine, riprende per noi i risultati di studi che applicano la metodologia della economic life-cycle analysis alle esperienze concrete di gestione dei rifiuti urbani per smentire, in particolare, il mito che il recupero energetico sia alternativo, e non complementare al recupero di materia e per proporre una nuova impostazione, che parta non già dall’origine del rifiuto (urbano o industriale) ma piuttosto dalla sua destinazione (recupero o smaltimento).

In Copertina: La gerarchia dei rifiuti secondo la Waste Framework Directive 2008/98 EC 


La “gerarchia dei rifiuti”

Come è noto, la politica europea dei rifiuti ha al suo centro la cosiddetta “gerarchia”. Essa stabilisce (vedi copertina) un ordine di priorità tra le diverse opzioni di gestione. Il miglior rifiuto è quello che non si produce (prevention); il riuso/riutilizzo precede il riciclo del materiale, che a sua volta precede il recupero di materia, che a sua volta precede il recupero di energia attraverso incenerimento. In fondo alla scala la discarica, preferibile solo all’abbandono incontrollato.

Questo principio, affermato all’inizio come orientativo, si è trasformato in una prescrizione da intendersi in modo sempre più letterale. Alla sua applicazione in “versione forte” si rifanno molte delle strategie adottate dall’UE negli ultimi anni in tema di rifiuti ed efficienza nell’uso della materia.

Questa visione tende a considerare le diverse soluzioni per gestire i rifiuti come alternative tra loro. In questo articolo sosteniamo che le diverse soluzioni andrebbero considerate semmai come complementari e non alternative; analogamente ad altri campi di indagine come quello relativo alle fonti energetiche, l’analisi comparativa andrebbe effettuata non tra tecnologie ma semmai tra diversi scenari complessivi di gestione della totalità del rifiuto.

Lo studio sul quale basiamo il ragionamento non è recentissimo, e non tiene conto di soluzioni nel frattempo affermatesi sul mercato. In particolare, non viene considerato il trattamento anaerobico della frazione organica, né le soluzioni di recupero chimico (“waste to chemicals”); parimenti non vengono considerati sistemi di gestione selettiva di frazioni dall’elevato valore intrinseco, come il PET.

Tuttavia, se i dati che qui presentiamo vanno considerati con beneficio di inventario, l’approccio metodologico è tuttora valido, e suggerisce che il principio di gerarchia, sebbene valido orientativamente e in linea di principio, non va tuttavia inteso in modo troppo letterale.

In particolare, il ragionamento riguarda il ruolo da assegnare al recupero di energia tramite incenerimento, rispetto a soluzioni collocate su gradini più alti della scala, in particolare il recupero di materia tramite il riciclo. Una tesi comunemente sostenuta vede queste soluzioni come alternative, con la conseguenza che ogni frazione incenerita è vista come una sottrazione una potenziale valorizzazione migliore tramite il riciclo. Secondo la visione che traspare dalle nostre conclusioni, il recupero energetico va inteso semmai come alternativo alla discarica, e riguarda quelle frazioni il cui riciclo risulta problematico perché troppo difficili o costose da separare.

 

 

Errori metodologici da evitare.

Quando si confrontano tra loro diverse soluzioni per gestire i rifiuti, si commettono di solito alcuni errori di impostazione.

Il primo è quello di confrontare le tecnologie tra loro, come se ciascuna potesse applicarsi alla totalità dei rifiuti. Ma è evidente a tutti che così non è: ogni soluzione si adatta a un determinato insieme di situazioni specifiche. Ancorché confrontare questa con quella tecnologia, sarebbe quindi opportuno partire dalla totalità dei rifiuti prodotti e ipotizzare scenari gestionali complessivi, con il vincolo di assicurare la gestione della totalità dei rifiuti generati.

Il secondo è quello di applicare metodi parametrici che non tengono conto dell’intensità con cui un processo viene attivato. Così, ad esempio, il costo per kg riciclato non varia se si ricicla il 10% o il 90% di un certo flusso. Ma anche le attività della gestione dei rifiuti, come tutte le attività industriali, vanno incontro a rendimenti decrescenti, di cui bisognerebbe tenere conto. Anche il “reference model” utilizzato dall’UE per supportare le proprie strategie commette un errore di questo genere, che finisce quindi per sottostimare notevolmente gli alti costi “al margine” che si incontrano quando una soluzione viene spinta oltre una certa soglia critica.

Il terzo è quello di non precisare il punto di vista che si vuole adottare (quello della comunità locale, quello generale della nazione, quello del singolo produttore di rifiuti). Cosicché si enfatizzano tra i benefici della raccolta differenziata i ricavi che si ottengono cedendo questi materiali ai consorzi di filiera, o i ricavi da energia elettrica rinnovabile: se ciò è corretto per il decisore locale che deve decidere quanto impegnarsi nella differenziata, non lo è invece a livello nazionale, dove i sistemi di incentivazione vanno considerati delle partite di giro.

Un quarto errore, particolarmente vistoso nel nostro paese, è quello di ignorare i molteplici spillover tra sistema di gestione dei rifiuti urbani e speciali, ricadenti il primo nel perimetro del servizio pubblico, gli altri in regime di mercato. Cosicché si sono potuti a lungo considerare gli impianti TMB come soluzioni di chiusura del ciclo, quando questi andrebbero piuttosto considerati come impianti di trattamento intermedio.

Prova di questo sistematico errore è il dato che ancor oggi campeggia sul sito di Eurostat, nelle cui statistiche si legge di un volume di rifiuti urbani generati di 28,7 Mt dei quali solo 25,9 Mt risultano “trattati”, ossia avviati a un impianto di trattamento – se così fosse, 2,8 Mt risulterebbero abbandonate in modo incontrollato, cosa che dovrebbe far scattare campanelli d’allarme e procedure di infrazione. Molto più semplicemente, si tratta di quei flussi in uscita dai TMB o dalle raccolte differenziate che vengono indirizzati verso il sistema di gestione dei business waste.

Similarmente, andrebbero conteggiati i “flussi di ritorno” rappresentati dagli scarti che si verificano a valle delle raccolte differenziate e delle attività di recupero, in particolare dal ciclo della plastica.

 

 

Incenerimento e riciclo: anatomia di un falso problema

Lo studio da noi condotto cerca di evitare questi errori metodologici. Esso applica la metodologia della economic life-cycle analysis alla gestione dei rifiuti urbani (Consonni, 2011; Massarutto et al., 2009; 2011). Scopo di tale metodologia è confrontare i costi sociali di soluzioni alternative considerando l’intero percorso “dalla culla alla bara” dei materiali considerati – laddove nel nostro caso la “culla” è rappresentata dal momento in cui i materiali divengono rifiuti nelle mani di chi li detiene, e la “bara” è, viceversa, il momento in cui cessano da tale qualifica essendo nuovamente pronti per essere commercializzati con un valore positivo, oppure per essere definitivamente collocati in discarica.

Sono state simulate due realtà territoriali modellate su caratteristiche geografiche e insediative tipiche dell’Italia settentrionale, un’area metropolitana e un’area con un centro urbano e una più vasta zona suburbana e rurale (rispettivamente 750 e 150 kt di rifiuti/anno, la cui composizione merceologica è stata ipotizzata con l’ausilio di alcuni operatori). Su entrambe le aree sono stati valutati 6 diversi scenari di gestione dei rifiuti, che si differenziano per diversi livelli di intensità nella raccolta differenziata: da un minimo del 30-50% ottenuto con raccolte stradali (scenari S35 e S50) a un massimo del 50-85%, ottenuto con metodi porta a porta (scenari P50-P65 e PC75-PC85, nei quali alla raccolta differenziata porta a porta si aggiungono anche soluzioni complementari quale il compostaggio domestico). Per tutti i primi 5 scenari viene valutata un’opzione-base in cui il rifiuto residuo (ossia, quello indifferenziato e gli scarti a valle delle fasi di trattamento finalizzato al recupero) viene destinato al recupero energetico attraverso incenerimento diretto; sono state poi considerate opzioni alternative quale la separazione meccanica con incenerimento della sola frazione secca oppure la produzione di cdr destinato a impianti dedicati o cdr di qualità utilizzabile in impianti industriali. Per il solo scenario PC85, considerato come rappresentativo della filosofia “rifiuti zero”, si è invece ipotizzato che anche il rifiuto residuo venga destinato al recupero di materia attraverso la trasformazione in additivi per l’edilizia.

Una caratteristica del modello è quella di applicare un vincolo di bilancio di massa: i materiali sono cioè considerati (e i relativi costi sono contabilizzati) finché non escono definitivamente dalla qualifica di rifiuto, ossia non riacquistano un valore positivo, ovvero sono definitivamente collocati in discarica; vengono pertanto incluse anche le attività che solitamente non vengono considerate in quanto pertinenti alla sfera del rifiuto speciale (es. tutte le attività di trattamento post raccolta differenziata svolte per conto dei sistemi industriali di riciclo). I bilanci di massa e di energia (potere calorifico dei flussi di rifiuto) sono stati caratterizzati attraverso una capillare indagine svolta presso i principali operatori del settore. Per ogni fase (raccolte, trattamenti) sono state ipotizzate le migliori tecnologie oggi disponibili, sia in termini di controllo delle emissioni che di rendimento. Per il bacino grande (area metropolitana) sono state considerate separatamente l’ipotesi di generazione di energia elettrica oppure di energia elettrica e calore in cogenerazione.

Lo studio adotta una prospettiva di costo sociale, da un lato considerando il valore di tutti i sottoprodotti al netto di eventuali incentivi, dall’altro includendo i costi esterni associati alle diverse fasi di trattamento. Nel bilancio dei costi esterni vengono considerati sia gli impatti locali (inquinamento), sia la produzione di CO2.

Vengono dapprima valutati i costi sociali netti di ciascuna fase; tali costi vengono successivamente pesati in funzione dell’incidenza che una determinata fase ha in ciascuno scenario. Il risultato finale è espresso rispetto alla produzione di rifiuti lorda (€/tRSU)

Come si vede nella tabella 1, tutti gli scenari hanno il comune obiettivo di ridurre in modo significativo i flussi destinati a discarica, sebbene con diversi mix di recupero materiale diretto, indiretto (downcycling) ed energetico.


Tabella 1 – Flussi di materiali negli scenari considerati: recupero diretto, indiretto (downcycling), energetico e discarica


Nella tabella 2 troviamo riassunti i principali risultati dell’analisi economica svolta. Come si può vedere, tutti gli scenari implicano un costo sociale netto (in nessun caso, insomma, i rifiuti sono una risorsa nel senso precisato nel par. 3.

In termini di costo puramente finanziario, i primi due scenari (raccolte stradali) presentano valori significativamente migliori rispetto agli scenari “spinti”; per questi ultimi il costo ha un andamento fortemente decrescente in funzione della resa: essi raggiungono cioè costi comparabili con quelli dei primi due scenari solo ipotizzando rese estremamente elevate della differenziata (oltre il 75%), che tuttavia appaiono ben poco realistici al di fuori di specifiche realtà le cui caratteristiche insediative e sociali permettono di ritenerle fattibili. Simili risultati sono stati raggiunti in un certo numero di comuni italiani di medio-piccole dimensioni, ma a livello di bacino territoriale più ampio (e di centri urbani maggiori) non è attualmente immaginabile di andare oltre valori del 50-65%.

L’avere evidenziato separatamente i costi “lordi” e i ricavi derivanti dalla cessione dei sottoprodotti permette di evidenziare che questi hanno un valore abbastanza significativo solo per l’energia elettrica e il calore, mentre per il recupero di materia le cifre in gioco sono modeste.


Tabella 2 – Costi sociali netti di gestione del rifiuto urbano nei 6 scenari e nelle 2 aree territoriali considerate (€/tRSU)

 

Il risultato non cambia considerando anche i costi esterni: ciò è legato in buona parte al fatto che le emissioni inquinanti dei vari cicli di recupero (soprattutto di quello energetico) sono favorevolmente compensate dalle emissioni risparmiate nei corrispondenti cicli che vengono sostituiti (produzione di energia elettrica in centrali a combustibili fossili, riscaldamento con caldaie domestiche).

Dalla tabella si evince inoltre che l’opzione migliore per la gestione del rifiuto residuo è quella dell’incenerimento diretto; opzioni alternative come la separazione della frazione secca e/o la produzione di cdr non solo implicano costi superiori, ma implicano anche la necessità di collocare altrove (presumibilmente in discarica) una quantità crescente di scarti.

Nella tabella 3 vengono riportati i risultati dell’analisi di sensibilità operata sulle principali ipotesi che sostengono la simulazione. L’unica ipotesi decisiva risulta essere quella relativa al recupero energetico “ottimizzato”: qualora si ipotizzassero rese inferiori (pari ai valori medi degli impianti attuali) i due scenari “stradali” (BU35 e BU50) scendono in ordine di preferenza al di sotto dei due scenari di “riciclo estremo”, K75 e K85.

Peraltro, questo è condizionato dall’effettiva possibilità che tali scenari raggiungano effettivamente i target prefissati; a questo proposito risulta critica la soglia del 70%, nel senso che se, dopo aver organizzato le raccolte puntando a quell’obiettivo i risultati fossero inferiori al 70% non solo l’ordine di priorità tornerebbe ad essere quello del modello base, ma il confronto in termini di costo peggiorerebbe a svantaggio del riciclo estremo.


Tabella 3 – Analisi di sensibilità dei risultati della simulazione

 

Per rendere realistica l’ipotesi di rendimento energetico ottimizzato occorre prevedere, da un lato, che i rifiuti abbiano un elevato potere calorifico (dunque, che vengano bruciati non rifiuti “tal quali” ma rifiuto residuo pretrattato), dall’altro che l’impianto sia equipaggiato per ottenere la cogenerazione di energia elettrica e termica (attraverso una rete di teleriscaldamento o applicazioni industriali del vapore). D’altro canto, come appena argomentato, raggiungere e superare un tasso di separazione alla fonte superiore al 70% sembra essere un traguardo plausibile solo in circostanze molto particolari, e non nei centri urbani maggiori.

Tutte le altre ipotesi invece non risultano particolarmente significative; una loro variazione può implicare una riduzione o un’amplificazione delle differenze tra gli scenari, ma non un’alterazione dell’ordine di preferenza.

 

Conclusioni

Le lezioni da trarre dall’analisi svolta si possono riassumere nelle seguenti

In primo luogo, emerge con chiarezza che per intercettare in modo selettivo flussi crescenti di rifiuti, fino ad arrivare a valori prossimi al 90-100%, è necessario ipotizzare costi che, oltre una certa soglia, crescono in modo vistoso. Questa soglia è difficile da collocare con precisione; il nostro modello la stima tra il 50 e il 60% del totale. Differenziare ulteriormente si può – e molte esperienze lo confermano, ad esempio il Veneto orientale – ma comporta da un lato maggiori costi, dall’altro tende a peggiorare la qualità del materiale raccolto, con scarti maggiori a valle.

In secondo luogo, non sembra porsi tanto un’alternativa tra riciclo e recupero energetico, quanto semmai tra un’alleanza tra questi contrapposta alla discarica. Ridurre al minimo la discarica fin quasi ad azzerarla è possibile, e di nuovo l’esperienza di molti paesi ce lo dimostra; in tutti questi paesi, tuttavia, è presente un mix di riciclo e recupero energetico, mentre in nessun paese del mondo si è ancora riusciti ad azzerare la discarica con il solo riciclo.

Scenari che puntino a livelli di riciclo maggiori si giustificano solo nei casi in cui la raccolta differenziata porta a porta riesca effettivamente ad intercettare frazioni molto elevate (oltre il 75%), con riduzione alla fonte di certi flussi e in particolare quello del rifiuto organico (attraverso il ricorso al compostaggio domestico): cosa fattibile in certi contesti, ma certamente non generalizzabile, soprattutto ai centri urbani di maggiori dimensioni, dove è realistico attendersi risultati comunque non superiori al 65% anche nelle esperienze migliori. Questo risultato è abbastanza robusto rispetto alle ipotesi alla base dello studio.

Ovviamente, non è possibile generalizzare questi dati: il livello ottimale di dosaggio sarà specifico ai diversi contesti territoriali, anche in funzione delle effettive potenzialità di valorizzazione dei sottoprodotti che il mercato locale offre. Ciò vale soprattutto per quei materiali di valore commerciale inferiore, sui quali il costo di trasporto potrebbe incidere in maniera sostanziale: come i rifiuti secchi destinabili alla produzione di combustibili, il compost, gli inerti da costruzione e demolizione.

Altrettanto ovviamente, sarebbe errato e fuorviante trarre da quanto sopra la lezione opposta, secondo cui il riciclo sarebbe una sorta di “cilicio” indossato per compiacere il fondamentalismo ecologista, utile al più a rendere la popolazione partecipe, ma inefficace come soluzione strutturale. La complementarietà delle diverse forme di recupero (materiale ed energetico) si apprezza invece sia tenendo conto della necessità di garantire che all’utilizzo energetico arrivino solo quelle frazioni con potere calorifico più elevato e stabile, sia del fatto, altrettanto evidente, che per frazioni rilevanti del rifiuto il recupero di materiali è non solo competitivo nel breve, ma presenta anche importanti prospettive di migliorare questa competitività in futuro, soprattutto se alle filiere industriali a monte giungeranno precisi segnali in grado di indirizzare il settore manifatturiero a partire dal design dei prodotti e delle catene logistiche.

La concorrenzialità tra le soluzioni potrà essere ulteriormente enfatizzata estendendo ulteriormente il principio di responsabilità estesa del produttore, già oggi impiegato con successo per addossare all’industria produttrice dei beni i costi della gestione di frazioni importanti di rifiuto, dagli imballaggi ai rifiuti elettronici. In un futuro non lontano, potrebbero essere questi soggetti a rappresentare i principali “clienti” dell’industria dei rifiuti, che finora ha operato soprattutto nella logica del servizio pubblico.

Un punto importante che la precedente discussione implica è quello relativo al regime istituzionale nel quale la gestione dei rifiuti opera. Tradizionalmente, il mercato è diviso in due aree (relativamente) indipendenti e impermeabili, quella del servizio pubblico (rifiuti urbani) e quella del mercato (rifiuti speciali). Mentre la prima sfera implica che vi sia un soggetto pubblico a farsi carico della gestione, rispettando le prescrizioni dei piani regionali in una logica di tendenziale autosufficienza, la seconda sfera affida la responsabilità direttamente al produttore di rifiuti, che può disfarsene ricorrendo ad operatori autorizzati, ma senza vincoli territoriali.

Una moderna gestione industriale dei rifiuti si trova stretta in questa dicotomia: sia perché, come si è detto, flussi importanti di rifiuti del servizio pubblico trovano poi la loro collocazione in attività di recupero in regime di mercato, sia perché le attività che si svolgono sul mercato a loro volta generano importanti quantità di scarti che vanno poi smaltiti. L’artificiosa distinzione tra urbani e speciali ha consentito impropri “arbitraggi”, come quello dei rifiuti di origine urbana trattati in impianti di cosiddetto riciclaggio (per produrre compost e combustibili teoricamente vendibili sul mercato), che tuttavia, rimasti invenduti, potevano poi essere smaltiti con maggiore libertà nel mercato degli speciali. Da un altro lato, vincolare gli impianti di trattamento all’autosufficienza (ossia, a gestire solo i rifiuti generati sul territorio in cui sono localizzati) potrebbe ostacolare il raggiungimento di un’efficiente dotazione impiantistica, costringendo ogni ambito territoriale a programmare la propria capacità, con un evidente rischio di sovradimensionamento del parco impiantistico a livello di sistema.

I tempi sono maturi, a mio avviso, per una nuova impostazione, che parta non già dall’origine del rifiuto (urbano o industriale) ma piuttosto dalla sua destinazione (recupero o smaltimento), definendo il ruolo pubblico soprattutto nell’assicurare che i rifiuti non recuperabili trovino collocazione adeguata, e nel controllare ciò che accade nel mercato del recupero onde prevenire attività illecite. Una “rivoluzione copernicana”, questa, che sta già avvenendo nei fatti: prova ne sia che gli operatori che con maggiore successo lavorano in questo mercato sono proprio quelli che si sanno collocare a cavallo delle due filiere.

 

 

Bibliografia

Consonni S., 2011, “Materials and energy recovery in integrated waste management system: Project overview and main results”, Waste Management, in corso di pubblicazione

Massarutto A., Graffi M., de Carli A., 2009, La gestione integrata dei rifiuti urbani: analisi economica di scenari alternativi, Rapporto di ricerca IEFE, Università Bocconi, www.iefe.unibocconi.it

Massarutto A., Graffi M., de Carli A., 2011, “Material and Energy Recovery in Integrated Waste Management Systems: a Life-Cycle Costing approach”, Waste Management, in corso di pubblicazione