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2024-09-20 23:32

Perché al Settore dei Rifiuti Serve un Regolatore Indipendente?

SERVIZI PUBBLICI E MERCATI

di: 
Antonio Massarutto*

Quello della gestione dei rifiuti è un settore in continua trasformazione e la sua regolazione complessa, in Italia, ha avuto esiti differenti e travagliati. A seguito di formali contestazione all’operato di Arera, abbiamo chiesto all’autore, esperto di economia e gestione delle risorse e dei servizi pubblici, di spiegare le ragioni per cui il modello regolatorio imperniato sull’Autorità indipendente è ancora desiderabile e, anzi, avrebbe bisogno di un aggiornato riferimento legislativo.

In Copertina: Foto Repubblica Napoli. Deposito ecoballe di Taverna del Re.


ARERA e la gestione integrata dei rifiuti urbani

La l. 205/2017 ha attribuito le competenze per la regolazione economica e tariffaria dei servizi di gestione dei rifiuti urbani all’Autorità indipendente che dal 1995 è competente per energia elettrica e gas, e negli anni successivi ha allargato le sue competenze al settore idrico (2011) e al teleriscaldamento (2014).

Se nei settori energetici e in quello idrico la competenza di ARERA non è mai stata seriamente messa in discussione, ottenendo anzi consensi assai ampi se non proprio unanimi, non altrettanto si può dire della gestione dei rifiuti.

Recenti sentenze del giudice amministrativo, sollecitate dagli operatori del settore, hanno più volte contestato la legittimazione di ARERA a disciplinare le tariffe di accesso agli impianti, o messo in discussione l’impianto dei sistemi di incentivazione applicati ai gestori del servizio pubblico (ad esempio, in tema di preparazione per il riciclo dei materiali plastici). Alcune Regioni, come la Lombardia, hanno di fatto disapplicato o svuotato di contenuto le regole stabilite dall’Autorità. Si è giunti perfino alla presentazione di proposte di legge tese a sottrarre interamente la materia alle competenze di ARERA, ritornando in pratica al quadro precedente il 2017.

Chi scrive è tra coloro che, da tempo, aveva caldeggiato la costituzione di un sistema di regolazione economica imperniato sulla figura di un’Autorità indipendente, e non ha cambiato idea nel frattempo. L’esperienza sin qui fatta con i primi due periodi regolatori, il secondo non ancora concluso, suggeriscono tuttavia alcune considerazioni sulle ragioni per cui un simile modello di regolazione è desiderabile, e qualche riflessione critica su come ARERA ha finora operato – spesso, è il caso di dirlo, costretta a farlo in un certo modo dall’assenza di un chiaro riferimento legislativo.

Un’autorità indipendente è un soggetto istituzionale abbastanza atipico per un ordinamento come il nostro, nel quale si è affermato storicamente un modello di tipo formalistico-procedurale. Essa presenta alcuni aspetti in comune con la magistratura, nel senso che nell’ambito delle sue competenze i suoi poteri sono insindacabili nel merito e non rispondono all’indirizzo politico. Ma mentre questa è soggetta alla legge ed è chiamata ad applicarla, il regolatore dispone di un ambito – delimitato dalla legge – entro il quale esercita una funzione “creativa”. Non si tratta solo di “mettere a terra” la norma applicandola al caso concreto, ma di emanare a sua volta norme che riempiono di contenuti specifici una cornice legislativa volutamente ampia e generica. Entro quest’ambito il regolatore indipendente dispone di una sovranità, più o meno ampia a seconda dei casi, in cui nessun altro soggetto istituzionale ha titolo ad interferire.

Ad esempio, la legge 481/95, che istituisce questo nuovo soggetto nel nostro ordinamento, ne individua i compiti declinandoli tra la tutela dei consumatori, la garanzia dell’equilibrio economico-finanziario, la promozione dell’efficienza, l’individuazione delle priorità con cui orientare la spesa, assicurare la coerenza con gli obiettivi individuati dal policymaker, garantire le condizioni che permettono un’effettiva concorrenza. Si tratta come si vede di responsabilità molto ampie, definite in modo tale da lasciare sostanziali margini di autonomia alle autorità nell’interpretazione del loro ruolo. A delimitarlo verso l’esterno vi sono, da un lato, le norme che il legislatore introduce per ciascun settore, e dall’altro la tutela della concorrenza.

Evidenti sono i trade-off tra i vari obiettivi. Ad esempio, tra la tutela del consumatore e la garanzia dell’equilibrio economico-finanziario (ogni operatore deve poter coprire i suoi costi); o ancora tra questa e la promozione dell’efficienza (che presuppone la possibilità che aziende non efficienti possano rimetterci). Nella soluzione del trade-off l’Autorità gode di autonomia e sovranità; non è pensabile, ad esempio, che una decisione politica impedisca un adeguamento tariffario con finalità di tipo sociale o anti-inflazionistico, se ciò impedisce il mantenimento dell’equilibrio finanziario.

 

Rigore è quando arbitro fischia

Per comprendere la logica che ha portato a ritenere utile una figura con queste caratteristiche nell’ambito dei servizi di interesse economico generale può essere utile un paragone con il gioco del calcio.

Benché tutti conoscano le caratteristiche fondamentali del gioco, possono sorgere delle controversie tra giocatori, che devono essere risolte per portare a termine la partita. In astratto, queste controversie potrebbero essere risolte in diversi modi alternativi rispetto al modello arbitrale:

-        Amichevolmente: si fa leva sul fair play, sulla comune condivisione del quadro generale delle regole e dello spirito del gioco; può funzionare fintantoché tutti i giocatori si fidano reciprocamente ed esistono delle sanzioni efficaci contro chi bara o cerca di piegare le regole a proprio vantaggio (es. esclusione dal gioco e dall’amicizia).

- Normativamente: si tratti di una legge che detta regole erga omnes o della lex specialis contenuta in un contratto, si affida a un testo scritto l’individuazione delle fattispecie rilevanti per l’esito della partita e le loro varianti (intensità dell’intervento, angolo di impatto, intenzionalità); a questo punto, l’enforcement della norma diviene banale, nel senso che si tratta semplicemente di applicare la norma come prescritto dal regolamento, in modo meccanico.

- Per via giudiziaria: si sospende la partita, delegando la soluzione della controversia ai diversi gradi di giudizio, dopodiché il gioco può riprendere.

- Per via politica: si sottopone la controversia al giudizio del popolo tramite una votazione, o al capriccio di un imperatore per mezzo della posizione verticale del pollice.

In astratto, tutti questi meccanismi possono funzionare, ma solo a certe condizioni.

Il primo presuppone infatti la fiducia tra i giocatori – cosa che ci si può più facilmente attendere tra amici, uniti dal desiderio di ottenere un bene comune come il piacere di giocare insieme, ad esempio, ma tende a indebolirsi man mano che l’importanza della posta in palio cresce e oltre alle squadre in campo altri soggetti hanno interessi in gioco: il pubblico, i tifosi, gli sponsor, gli scommettitori, i media.

Il secondo presuppone una norma estremamente dettagliata e precisa, che non lasci adito a interpretazioni, insieme a un meccanismo affidabile per ricondurre ogni comportamento alle fattispecie codificate e accertarne il rispetto.

Il procedimento giudiziario ordinario, dal canto suo, promette una soluzione massimamente equa, consentendo alle parti di far valere le proprie ragioni ed eventualmente di ricorrere a un grado di giudizio superiore; non dà però garanzie sui tempi, rischiando di fermare il gioco anche per periodi molto lunghi.

Quanto alla soluzione politica, essa può non essere coerente con i principi generali del gioco, riflettendo semmai l’inclinazione della maggioranza verso questo o quel contendente, facendosi condizionare dalle priorità di chi in quel momento detiene il potere.

Il meccanismo arbitrale rappresenta, per certi versi, una sintesi. In esso è presente una componente fiduciaria, che si trasferisce al meccanismo di selezione dell’arbitro, che tutte le parti devono riconoscere come imparziale, competente e in buona fede; fallibile, certamente, ma non in modo pregiudizialmente favorevole all’uno o all’altro giocatore.

Come il giudice, l’arbitro è una figura terza, indipendente dal potere politico e agisce con discrezionalità (sottoposta solo alla legge). La nomina dell’arbitro, così come la decisione in merito a premi, sanzioni e carriere, è retta da un meccanismo di autogoverno.

È presente anche l’elemento normativo (il regolamento), che tuttavia ammette a seconda dei casi maggiori o minori gradi di interpretabilità. Un tempo la punibilità degli interventi era lasciata interamente alla valutazione arbitrale, mentre le attuali regole individuano alcune fattispecie, come la “chiara occasione da rete”, il “fallo da ultimo uomo”, il “fallo tattico” che, se accertate, determinano automaticamente la sanzione. Il tocco di mano richiedeva per essere sanzionato la valutazione dell’intenzionalità, lasciando molto spazio all’interpretazione; ora è sempre punibile se il braccio è staccato dal corpo, limitando il ruolo dell’arbitro all’accertamento di questo fatto. La tecnologia ha permesso di sottrarre interamente certi ambiti alla discrezionalità dell’arbitro per attribuirli alla macchina (la goal-line technology, il fuorigioco) o supportarla (il VAR, la moviola, le immagini rallentate).

Ciò detto, il procedimento arbitrale possiede caratteristiche sue specifiche. L’arbitro decide infatti in tempo reale, assicurando continuità al gioco. Negli ambiti che gli sono concessi, decide in modo discrezionale, sulla base delle proprie convinzioni, permettendo di disciplinare per via normativa solo principi generali, cosa che risulta utile laddove sia troppo complesso e difficile prevedere in anticipo ogni possibile fattispecie reale. È insindacabile nel merito, non essendo ammessi ricorsi contro le sue decisioni; quand’anche in seguito si dovesse appurare l’errore, perfino se commesso in malafede o a seguito di corruzione, il risultato acquisito sul campo resterebbe valido (si dovrebbe semmai provare che è stato il soggetto avvantaggiato dalla decisione a procurarla illecitamente, e in tal caso potrebbe essere sanzionato, ad es., con la retrocessione a tavolino).

Ovviamente, come appena detto sopra, il potere discrezionale dell’arbitro non è assoluto, ma circoscritto dai regolamenti, che possono essere più o meno stringenti, ma non lo sono mai del tutto; l’arbitro non “applica” la regola in modo meccanico, ma piuttosto ne “traduce” i principi, scegliendo in base al buon senso e all’esperienza in che modo applicarli. È evidente da questo identikit che un simile meccanismo, ispirato a un criterio di ragionevolezza, ha una chiara origine nel mondo anglosassone della common law.

Per quanto risponda formalmente solo all’organo di autogoverno, l’arbitro non è del tutto insensibile alla pressione dell’opinione pubblica, al giudizio degli esperti (es. moviolisti televisivi), alle proteste delle squadre che si ritengono danneggiate. Come extrema ratio, le squadre potrebbero infine ricusare la corporazione arbitrale e scegliere di affidarsi a modelli diversi. Si potrebbe dire, giocando un po’ con le parole, che la decisione dell’arbitro è discrezionale, ma non può essere “arbitraria”, nel senso di “autoreferenziale e basata sul capriccio”.

Il principale vantaggio di questo meccanismo consiste nella tempestività della decisione e nel minore costo necessario per farlo funzionare. È chiaro che la soluzione dell’arbitrato indipendente risulta attraente nei casi in cui il costo (per le parti in gioco) dell’eventuale errore nella soluzione del caso è ritenuto inferiore rispetto al valore che ha per esse il poter continuare a giocare la partita assicurandole credibilità. Si accetta l’errore se si ha la garanzia che questo sia commesso in buona fede e senza “sudditanze”, da parte di un soggetto competente che ha fatto del suo meglio per assolvere correttamente al mandato ricevuto.

Come per l’arbitro del calcio, la regolazione indipendente non va quindi confusa con il controllo, inteso come verifica del concretarsi o meno delle fattispecie previste dalla norma, come avviene per esempio nel caso delle agenzie ambientali, deputate ad accertare che il contenuto di inquinanti negli scarichi non superi i limiti stabiliti, o dell’autovelox che scatta al superamento del limite di velocità. Essa ha piuttosto il compito di interpretare la norma, tradurla in strumenti operativamente applicabili, applicandola al caso specifico. Ciò permette alla norma di essere meno precisa, limitandosi ad enunciare principi molto generali. Ai pesi e contrappesi istituzionali, sempre e comunque necessari, è affidato il difficile compito di contenere la discrezionalità decisionale dell’Autorità, evitando che sconfini nell’arbitrio.

 

Regolazione come risposta a contratti incompleti e mercati imperfetti

Anche nella fornitura dei servizi pubblici esistono, in astratto, obiettivi differenti e antitetici tra cui occorre mediare. I gestori devono coprire i loro costi generando un residuo positivo. Gli investitori vogliono mettere a frutto i loro capitali. Gli utenti vogliono ricevere il servizio e pagarlo il meno possibile. I lavoratori desiderano condizioni lavorative adeguate e remunerazione congrua. I fornitori desiderano essere puntualmente pagati. Le generazioni future esigono che l’investimento sia adeguato a mantenere le infrastrutture in buono stato. L’ambiente richiede che nel fornire il servizio si adottino tecnologie non impattanti il capitale naturale.

Tra questi diversi interessi in gioco occorre trovare un equilibrio sostenibile – che consenta ai gestori di fornire in modo durevole il servizio con le caratteristiche desiderate dagli utenti e dal soggetto pubblico, potendo attingere dal mercato le risorse necessarie con la certezza di poterle remunerare al loro prezzo.

La definizione di “servizio pubblico” – che oggi il diritto europeo, con una significativa transizione non solo terminologica chiama “servizio di interesse generale” - sono i servizi che il policymaker ritiene essenziali per il benessere della comunità, e decide per questa ragione di assoggettare ad “obblighi di servizio pubblico”, in quanto il mercato non li fornirebbe spontaneamente, almeno non nella misura e con la qualità desiderata. Le imprese non sono cioè libere di decidere i livelli di produzione, la qualità, il territorio e le fasce di utenza da presidiare, gli investimenti, ma devono sottostare alle prescrizioni del policymaker; se da questi obblighi discendessero oneri tali da pregiudicare la sostenibilità economico-finanziaria, l’impresa dovrà esserne compensata o da pagamenti diretti – che in tal caso non sono considerati “aiuti di stato” illeciti, ma appunto compensazioni – o da altri tipi di privilegio, come diritti esclusivi, monopoli legali e protezione dalla concorrenza.

La volontà politica di introdurre obblighi di servizio pubblico non impedisce, in astratto, che i servizi possano essere erogati in regime di mercato. L’obbligo di servizio pubblico potrebbe infatti essere imposto in modo generalizzato su tutte le imprese, o alcune tra queste, compensandolo a parte se necessario. Occorre quindi per prima cosa verificare la compatibilità tra l’obbligo di servizio pubblico e la concorrenza.

Il problema che sorge è quello di individuare un livello congruo di remunerazione del gestore quando la concorrenza non c’è (ad esempio per la presenza di economie di scala o di barriere all’ingresso costituite da infrastrutture non duplicabili controllate da un solo operatore), ovvero quando questa viene limitata o sospesa per rendere finanziabili gli obblighi di servizio pubblico (ad esempio, la fornitura del servizio anche dove esso risulta antieconomico per assenza di una domanda sufficiente).

Quando la concorrenza nel mercato viene a mancare, e con essa la sua benefica capacità di guidare i prezzi verso i costi marginali e impedendo la formazione di rendite di monopolio, le alternative sono, essenzialmente, tre.

La prima è quella di delegare a un contratto l’individuazione dei livelli di servizio (compresi gli obblighi di servizio pubblico) e la remunerazione; attraverso una gara, verrà scelto tra i tanti l’operatore che si vincola ad offrire il servizio alle condizioni più vantaggiose. Affinché il meccanismo funzioni, è necessario che alla gara partecipi un numero adeguato di concorrenti, tutti in grado di offrire il bene richiesto, e che il contratto sia “completo” – ossia, preveda le fattispecie che possono incidere sui costi ed individui la remunerazione corrispondente. Se esso è incompleto infatti – ossia, se non prevede le conseguenze economiche di qualche possibile accadimento futuro – dovrà essere all’occorrenza rinegoziato in corso d’opera, con tutte le evidenti difficoltà e conflittualità, nonché rischi di corruzione.

La seconda è quella di assoggettare l’impresa al controllo diretto del policymaker, in un rapporto di tipo gerarchico (es. gestione “in economia” da parte dell’ente pubblico). Quest’ultima soluzione tende peraltro ad essere abbandonata, a motivo della difficoltà con cui la governance pubblicistica – appesantita com’è dalle regole formali della burocrazia - è in grado di guidare le aziende in un contesto che richiede iniziativa, tempestività e creatività imprenditoriale; e anche della maggiore facilità di accesso al mercato finanziario. Ancora, questo modello risulta più facilmente vulnerabile alla “cattura” da parte di interessi politici diversi, come ad esempio la volontà di non scontentare gli elettori aumentando le tariffe, o ridurre gli organici in esubero. Già dagli anni ’90 la norma nazionale – ora confluita nel Dlgs 201/23 – impone il modello della SpA civilistica – pubblica, privata o mista – per la gestione dei servizi “a rilevanza economica”.

La forma giuridica privatistica richiede che anche nel caso delle imprese pubbliche il rapporto con l’ente affidante, anche se proprietario, sia disciplinato da un contratto di servizio, sebbene l’affidamento sia diretto e non frutto di una gara. Questa circostanza può rendere il contratto più facilmente rinegoziabile, il che però non è sempre un vantaggio (ad esempio, l’azionista potrebbe costringere l’impresa ad accettare supinamente condizioni penalizzanti per consentire al politico di non aumentare le tariffe).

La terza soluzione è, per l’appunto, quella della regolazione: la sua caratteristica, come per l’arbitro del calcio, è precisamente quella di sostituire la norma "ex ante" (il contratto) con una decisione discrezionale ex-post demandata non già all’accordo successivo tra le parti, ma a un soggetto terzo, indipendente e imparziale, vincolato da alcuni criteri generali – nel nostro caso, ad esempio, la fedeltà ai principi stabiliti nella legge istitutrice.

In un fondamentale articolo del 1976, Victor Goldberg assimilava la regolazione a un “contratto amministrato”, ossia un contratto le cui clausole non sono definite in modo rigido in sede di stipula, ma vengono perfezionate in corso d’opera ricorrendo a una procedura codificata e arbitrata.

Goldberg riconduceva la ragione di ciò essenzialmente al fatto che i contratti sono necessariamente incompleti – ossia, non possono prevedere in modo puntuale ogni possibile evento futuro – quanto più complesso è il loro oggetto e quanto più si estende nel tempo la loro durata; ciò perché non è possibile prevedere ogni fattispecie in anticipo, vuoi perché risulterebbe troppo oneroso o rischioso. Ad esempio, definire con molto anticipo un prezzo predeterminato per una prestazione dal costo aleatorio mette i contraenti in una situazione di rischio asimmetrico: a seconda dei casi, l’operatore potrebbe guadagnare tantissimo o subire delle perdite altrettanto gravose. Se i fattori aleatori fossero totalmente fuori dal suo controllo, ciò equivarrebbe ad ancorare la propria performance economica a un gioco d’azzardo. D’altra parte, affidare la definizione del prezzo a una negoziazione successiva significa esporre ciascuna delle controparti al potere di ricatto dell’altra, nonché al rischio di determinare contenziosi.

Come nel gioco del calcio, le parti si sottomettono invece alla decisione discrezionale di un arbitro, cui viene demandata la soluzione della controversia e la definizione del quantum.

I rischi sono tanto più concreti quanto più si ha a che fare con transazioni dall’elevato grado di specificità, che a sua volta discende dalla presenza di “costi affondati”, ossia investimenti che hanno valore economico solo all’interno di quella transazione, e risulterebbero prive di valore al di fuori di essa. L’investimento nelle infrastrutture di rete è un esempio perfetto: chi investe per realizzare questi impianti sa che, una volta effettuato l’investimento, questo è “prigioniero” del territorio in cui gli impianti sono collocati. Se l’operatore volesse uscire da quel mercato e trasferirsi altrove, gli impianti resterebbero lì.

Per garantirsi reciprocamente da possibili comportamenti opportunistici, le parti si “legano” in un contratto a lungo termine, che tuttavia lascia necessariamente irrisolte molte questioni, deferendone la risoluzione a un momento successivo, con le conseguenti inevitabili controversie.

D’altra parte, anche l’eventuale accordo non garantisce di per sé una soluzione soddisfacente. Questo in particolare laddove siano coinvolti nella relazione anche soggetti terzi, sui quali le controparti potrebbero scaricare le “esternalità negative”. Nei servizi pubblici, in particolare, la relazione tra ente affidante e gestore affidatario non esaurisce l’insieme degli stakeholder sul cui benessere impatta l’organizzazione del servizio. Vanno considerati ad esempio gli utenti che fruiscono del servizio e lo pagano (e rischiano di pagarlo troppo, o di ricevere livelli di prestazione inadeguati); gli investitori che vi immobilizzano i propri capitali (e rischiano di non vederli adeguatamente remunerati o tempestivamente restituiti); i lavoratori (che rischiano livelli di occupazione o condizioni lavorative insoddisfacenti); l’ambiente (che potrebbe essere sacrificato per risparmiare sui costi); le generazioni future (su cui grava il rischio di investimenti inadeguati a mantenere il valore delle infrastrutture, o un eccessivo accumularsi di debito); i concorrenti (che potrebbero subire una concorrenza sleale per via dei privilegi attribuiti ai fornitori del servizio pubblico).

Un regolatore indipendente, con un mandato istituzionale precisamente confinato alla sostenibilità dei servizi regolati rappresenta una possibile garanzia contro questo tipo di situazioni.

 

Il caso dei rifiuti urbani: gestione integrata, pianificazione o mercato?

Benché lo stesso Dlgs 201/2023 la rubrichi tra i servizi di interesse economico generale “a rete”, la gestione dei rifiuti urbani “a rete” propriamente non è, non utilizzando appunto un’infrastruttura fissa; il che rende le sue attività potenzialmente molto più contendibili e aperte alla concorrenza rispetto ai servizi come la distribuzione del gas e dell’elettricità, o al ciclo dell’acqua.

Del resto, i rifiuti speciali (quelli prodotti dalle imprese), che sono tre volte tanti, sono gestiti in regime di libero mercato, con solo l’obbligo per gli operatori di essere accreditati tramite l’iscrizione ad un albo.

A rendere poco praticabile ed efficiente un modello di concorrenza nel mercato della raccolta provvede il fatto che quest’attività comporta inevitabili problemi logistici, che crescono con i volumi di rifiuti da raccogliere e con i livelli di congestione dei territori serviti; per cui risulta preferibile ridurre al minimo il numero di passaggi e di mezzi coinvolti, possibilmente di notte, riducendo l’occupazione di suolo; i sistemi di raccolta devono essere omogenei in funzione delle caratteristiche degli impianti di selezione a valle.

C’è poi la difficoltà di controllare che ognuno conferisca effettivamente i propri rifiuti a un soggetto autorizzato, piuttosto che semplicemente abbandonandoli sul suolo pubblico.

Queste considerazioni spingono verso l’organizzazione di un unico servizio per ciascun territorio (non necessariamente per ciascun comune, essendo possibile, in un grande comune, suddividerlo in lotti funzionali affidati a gestori diversi.

D’altro canto, le attività di “ultimo miglio” (raccolta stradale o domiciliare, spazzamento, raccolte selettive, gestione dei rifiuti “orfani”) sono semplici e prevalentemente labour-intensive, sebbene possano essere in parte automatizzate; sono prive di economie di scala al di là di una dimensione minima efficiente di qualche decina di migliaia di abitanti. Con poche eccezioni (es. le isole ecologiche interrate), le infrastrutture possono essere agevolmente trasferite ad altri ambiti gestionali e non costituiscono quindi dei costi “affondati” nel caso in cui un operatore perdesse un affidamento.

Queste caratteristiche rendono la raccolta dei rifiuti urbani e lo spazzamento particolarmente adatte all’affidamento tramite gara, essendo relativamente facili da contrattualizzare per periodi relativamente brevi. La concorrenza “per il mercato” (in sede di aggiudicazione della gara) potrebbe quindi supplire più che adeguatamente all’impossibilità di un’autentica concorrenza “nel mercato”. Una gara adeguatamente disegnata potrebbe selezionare l’operatore in grado di fornire il servizio alle condizioni migliori per i cittadini.

I rifiuti raccolti, tuttavia, devono a loro volta essere trattati, vuoi per consentirne il recupero come materia o energia, vuoi per essere definitivamente smaltiti.

Di nuovo, almeno in teoria, non sembrano esserci ostacoli particolari allo sviluppo di un mercato competitivo dei servizi di trattamento. Le tecnologie sono relativamente semplici e acquisite, l’entrata sul mercato non particolarmente difficile. I costi di trasporto incidono in maniera abbastanza significativa, rendendo di solito antieconomico muovere i rifiuti oltre il raggio di qualche decina di km; tuttavia, l’estensione spaziale del mercato è funzione anche dei costi di trattamento, che si sono molto innalzati per via delle sempre più severe prescrizioni ambientali, dando senso a spostamenti di raggio maggiore.

Il riciclo da sempre si svolge sul mercato, traendo senso economico dall’esistenza di un differenziale positivo tra il valore di mercato dei materiali recuperati e i costi da sostenere per raccoglierli, selezionarli e trasformarli in nuove materie prime.

Se ciò effettivamente accadesse – se chi raccoglie il rifiuto trovasse un mercato competitivo ad offrire servizi di trattamento o di riciclo – non vi sarebbero problemi.

Il punto è che, al contrario, il trattamento ha storicamente rappresentato un collo di bottiglia, con una cronica sottocapacità di impianti autorizzati: vuoi per le difficoltà autorizzative, vuoi per l’opposizione della popolazione. Se l’offerta non è sufficientemente elastica, l’eccesso di domanda finisce per trasformarsi in emergenza rifiuti, non potendosi immaginare che la gente smetta, tutto a un tratto, di generarne.

Per superare questo collo di bottiglia, il regime istituzionale creato negli anni ‘70 in Europa (Dir. 75/442, recepita in Italia dal DPR 915/82) prevedeva a questo scopo la pianificazione dei flussi di rifiuti, attribuendone la responsabilità ai livelli regionali (NUTS-2), e introducendo il principio di autosufficienza: ogni ambito territoriale avrebbe dovuto provvedere al proprio interno allo smaltimento; il piano regionale avrebbe individuato gli impianti necessari a coprire il fabbisogno, indirizzandovi per via amministrativa i flussi raccolti nei diversi comuni, e regolando le tariffe al cancello.

Laddove ha funzionato, questo sistema ha garantito ai comuni la certezza di un sito dove collocare i rifiuti raccolti, permettendo loro di concentrare il proprio ruolo sui soli servizi di “igiene urbana” propriamente detti. Si è generato in questi casi un mercato a due livelli, sotto la responsabilità di enti locali (raccolta, spazzamento) e regionali (smaltimento). L’ente locale poteva bandire una gara per affidare la raccolta e lo spazzamento; l’affidatario avrebbe conferito agli impianti individuati dal piano.

Si rifletta tuttavia sul fatto che il “principio di autosufficienza” non ha alcuna giustificazione economica – come non ne avrebbe un analogo obbligo di autosufficienza negli approvvigionamenti di qualunque altro bene o servizio: perché non viene istituito per l’energia elettrica, o per l’acciaio, o per il cemento, ad esempio? Dopotutto, trattare i rifiuti è un’attività industriale, inquinante, certo, ma non più che gestire un altoforno o una centrale termoelettrica.

La sua giustificazione è semmai “di ordine pubblico”, e serve ad assicurare che le comunità territoriali siano responsabilizzate a farsi carico almeno dei “propri” rifiuti. Va da sé che nel regime pianificato l’autorità competente avrebbe non solo indirizzato i flussi e scelto gli impianti da realizzare e la relativa localizzazione, ma anche definito le condizioni economiche del conferimento, essendo gli impianti di piano in possesso di un vero e proprio monopolio legale.

Peraltro, in Italia la pianificazione, andata a regime a fine anni ‘80 - inizio anni ‘90, raramente è stata risolutiva. Per risolvere i nodi politici relativi alla localizzazione degli impianti, molte Regioni optarono per introdurre obiettivi molto ambiziosi di raccolta differenziata; quanto allo smaltimento, ci si affidava agli impianti di trattamento meccanico-biologico (TMB) che in teoria avrebbero trasformato i rifiuti in materiali riciclabili, combustibili solidi e ammendanti agricoli, praticamente azzerando la destinazione a discarica. Ma si sopravvalutò enormemente la possibilità di collocare effettivamente sul mercato questi materiali, che per lo più rimanevano, invenduti, nelle mani dei gestori di questi impianti. Quanto ai rifiuti raccolti in modo differenziato, la loro collocazione sul mercato si rivelò subito più difficile del previsto, sia per la bassa qualità dei materiali che per il tardivo sviluppo dell’impiantistica a valle, per il quale si era fatto affidamento esclusivamente sulla libera iniziativa.

Alcuni gestori, soprattutto nelle regioni del Nord, presero l’iniziativa realizzando in proprio gli impianti, e facendoli in un secondo tempo recepire da parte del piano regionale, riuscendo così a “chiudere il cerchio” alla scala locale. Un po’ per questo precedente di successo, un po’ per l’influenza culturale del modello che il legislatore aveva appena adottato per il caso del servizio idrico (l.36/1994), l’approccio della “gestione integrata” fu preso a modello anche per i rifiuti, in modo pressoché unico nei paesi sviluppati. In base al Dlgs 22/97, la “gestione integrata” si sarebbe dovuta organizzare per “ambiti territoriali ottimali” entro i quali gli enti locali avrebbero affidato il servizio consistente di raccolta e trattamento, con un unico contratto.

Al modello “a due livelli” affermatosi nel resto d’Europa, l’Italia opponeva un modello verticalmente integrato, in cui il medesimo operatore sarebbe stato responsabile sia di raccogliere i rifiuti che di provvedere al loro smaltimento, procurando la capacità necessaria e mettendo la propria a disposizione del territorio circostante, di fatto legandolo a sé.

Quello che sarebbe stato altrimenti un mercato relativamente semplice da affidare in gara limitandosi alla sola raccolta si ritrova così ad operare in un contesto assai più complesso, poiché all’operatore che raccoglie i rifiuti spetta anche la responsabilità di provvedere a collocarli. Un affidamento assai meno contendibile, richiedente tempi più lunghi e quindi, necessariamente, contratti incompleti. Da qui l’esigenza, da molti avvertita già all’indomani dell’approvazione del Dlgs 22/97, di istituire un sistema di regolazione modellato su quello delle altre utility a rete.

Va detto che il modello integrato previsto dal legislatore non si è affermato in modo omogeneo in tutto il paese, né dovunque si sono costituiti gli “enti di governo dell’ambito” che ne sarebbero dovuti diventare i soggetti titolari al posto dei singoli comuni. Cosicché in molte parti d’Italia resiste ancora un modello più simile a quello tradizionale in cui i comuni affidano individualmente il servizio, separatamente per le diverse parti che lo compongono, confidando nella pianificazione regionale per trovare destinazione ai rifiuti raccolti (e finendo nell’emergenza quando il piano fallisce nei suoi scopi, come avvenuto in Campania qualche anno fa, e oggi in Lazio: con il risultato di rendere indispensabile la soluzione commissariale).

In questi contesti gli affidamenti sono molto più brevi (l’Osservatorio di Utilitatis, pubblicato annualmente nel “Green Book”, mostra una durata di un paio di anni) e per contenuti molto più semplici.

ARERA ha modellato la sua regolazione sulla base dell’impianto previsto dal legislatore, immaginando un affidamento lungo (diciamo nell’ordine dei 15-20 anni) che risulta però difficoltoso e assai macchinoso quando si tratta di gestire con frequenza gli avvicendamenti tra un gestore e l’altro.

 

Il recupero dei rifiuti e il ritorno al mercato

Fino alla metà degli anni ‘90, Il riciclo rimaneva affidato all’iniziativa privata, ma non riusciva ad interessare che frazioni marginali dati i limitati margini economici che esso consentiva. Alla diffusione crescente delle raccolte differenziate non corrispondeva uno sviluppo adeguato della capacità di assorbimento dei materiali raccolti.

L’introduzione del principio di responsabilità estesa del produttore (EPR) rappresenta, da questo punto di vista, un’innovazione radicale. Chi immette in circolo i prodotti diviene responsabile di assicurarne il recupero, offrendo a chi raccoglie i rifiuti una destinazione garantita, e a condizioni economiche prefissate, trasferendo sui produttori il conseguente rischio di mercato. L’iniziativa dei produttori, organizzati quasi sempre in sistemi consortili da essi finanziati, ha posto le basi per lo sviluppo delle attività di trattamento a valle. Un vero e proprio “sistema duale” che, operando parallelamente alla gestione dei rifiuti destinati allo smaltimento, ne intercetta frazioni via via maggiori.

Questo passaggio epocale ha un’ulteriore conseguenza importante: se in precedenza il riciclo rappresentava un’attività residuale, svolta solo se economicamente conveniente, si trasforma in un “servizio pubblico” di nuova concezione, nel quale l’”obbligo di servizio”, posto in capo ai produttori invece che agli enti locali, consiste nel garantire il ritiro dei materiali a condizioni vantaggiose per chi li raccoglie, e nel raggiungere obiettivi di riciclo sempre più sfidanti (attualmente esso è il 65% dei rifiuti generati, con target individuali ancora più elevati per flussi specifici come il vetro, la carta, i metalli, la plastica).

La graduale estensione del principio di responsabilità estesa del produttore a nuove frazioni offre una molteplicità di soluzioni alternative. Dopo gli imballaggi, i cui sistemi si sono costituiti già negli anni ‘90, è stata la volta dei rifiuti elettronici e, più recentemente, di flussi quali i prodotti tessili, i mobili, le macerie da demolizione, gli pneumatici, i materassi.

In secondo luogo, i principali operatori, nelle cui mani si concentra il grosso della capacità di incenerimento con recupero di energia, tendono sempre più a separare il business della raccolta da quello del trattamento, costituendo società separate, e proponendosi sempre di più sul mercato ricercando sempre più sinergie con il trattamento dei rifiuti speciali. Pur se, a livello di gruppo, le economie da integrazione verticale risultano evidenti, il ciclo dell’igiene urbana (raccolta, spazzamento) e quello dei trattamenti sempre più industriali, orientati al recupero di energia così come di materia viaggiano su binari sempre più separati: monopolio regolato da una parte, concorrenza nel mercato dall’altra.

D’altra parte, molti flussi avviati al recupero tramite il sistema dei consorzi di filiera generano scarti che non possono essere riciclati, almeno nella fase attuale, e possono essere trattati solo con il recupero energetico.

Si aggiunga che, con la diffusione degli impianti TMB, si è generata una situazione piuttosto paradossale. Realizzati nella convinzione che i materiali in uscita – in particolare il combustibile secondario originato dalla frazione secca – avrebbero trovato facilmente mercato presso gli impianti industriali – i TMB sono stati trattati dalla pianificazione regionale come impianti finali di chiusura del ciclo. Ma poiché invece i flussi in uscita non trovavano acquirenti, i gestori sono stati costretti a smaltirli come rifiuti, ma essendo questi nel frattempo usciti dalla contabilità del rifiuto urbano, rientravano in gioco come rifiuti speciali, liberati pertanto dal vincolo dell’autosufficienza. Sono state le discariche del Sud, prima, e poi i termovalorizzatori delle Regioni più sviluppate, a ricevere questi flussi.

Oggi la situazione è solo in parte modificata. La trasformazione in combustibile secondario (CSS) utilizzabile da impianti industriali come i cementifici offre un’alternativa al conferimento diretto del rifiuto secco agli impianti di termovalorizzazione, consentendo qualche margine di flessibilità: questa soluzione peraltro trova ancora pochi operatori disponibili in Italia, alimentando semmai l’esportazione verso Paesi dell’Europa Centrale e Orientale, verso i quali si dirigono flussi consistenti.

Tutte queste dinamiche hanno reso gli impianti di incenerimento meno vincolati al territorio di origine, destinando una capacità consistente a trattare flussi provenienti dal mercato.

Un discorso a parte va fatto per la filiera dell’organico. Se negli anni ‘90 ancora ci si illudeva di poterlo separare a valle dal rifiuto indifferenziato per avviarlo poi al compostaggio, diveniva sempre più chiaro che un compost di qualità poteva ottenersi solo da una raccolta selettiva. Ma ciò permetteva anche di sfruttare in modo più intensivo il materiale organico, avviandolo a processi di digestione anaerobica, che permettono l’estrazione di tutto il combustibile sotto forma di biometano, trasformando poi il residuo in ammendante agricolo. La filiera di questa tecnologia si è sviluppata inizialmente per iniziativa di due imprese private, per certi versi outsider del settore – la prima diversificandosi dopo un passato nel settore siderurgico, la seconda dal mondo agricolo, che hanno realizzato tre impianti che, da soli, rappresentano oltre la metà della capacità sul mercato. Il fatto che questa capacità si concentri al momento nel Nord Italia fa sì che in alcune regioni vi sia un eccesso di capacità, destinato nella fase attuale a ricevere imponenti flussi di materia organica dalle regioni del Centro-Sud.

Il paradigma dell’economia circolare spinge ulteriormente verso regimi di mercato, sia perché è dal mercato che ci aspettiamo sorgano le iniziative imprenditoriali che possono valorizzare i flussi di rifiuto, sia per la crescente diffusione di sistemi di raccolta selettivi o duali, appoggiati ad operatori diversi dal servizio pubblico e funzionali al take-back in vista del riuso o di logiche “product-as-a-service” – dai punti vendita ai servizi di manutenzione organizzati dai produttori.

La crescente diffusione delle raccolte “porta a porta” crea spazio per servizi privati di gestione dei sistemi di raccolta privati (es. esposizione dei contenitori nelle ore notturne, manutenzione e lavaggio), preludendo a possibili soluzioni innovative (es. il conferimento dei rifiuti raccolti da parte di questi soggetti direttamente agli impianti di trattamento o alle piattaforme di smistamento; raccolte selettive dei materiali oggetto di interesse da parte dei sistemi di riciclo, anche se non raccolti separatamente dal servizio pubblico).

 

A metà del guado 

Come si è visto, il settore dei rifiuti ha cambiato pelle più volte negli ultimi decenni, con un ritmo di trasformazione che si va ulteriormente accelerando. La transizione risulta un po’ caotica, anche perché non avviene dovunque nello stesso momento, e non avviene tutta in una volta.

Questa trasformazione, tuttavia, non è ancora completa. Così se in alcune parti del paese si può già intravvedere un mercato degli impianti di trattamento simile a quello consolidatosi nel Nord Europa – impianti che operano in modo indipendente e lasciano immaginare uno scenario di autentica concorrenza nel mercato, in altre regioni prevale ancora la quasi-monocoltura della discarica, gli operatori faticano a reperire le soluzioni di trattamento, e devono esportare i propri rifiuti verso altre regioni (o paesi) in regime commissariale.

Se in alcune regioni la capacità impiantistica è ormai tale da far ritenere superato il regime della pianificazione, non così in molte altre, specie nel Centro-Sud, dove la dotazione è ancora largamente insufficiente, le crisi si ripetono (ieri Napoli, oggi Roma, domani forse Palermo o Firenze) con l’annesso spettacolo di cumuli di spazzatura ammassati nelle strade alla mercè di gabbiani e cinghiali.

La crescente capacità del mercato di assorbire flussi di materiali derivanti dai rifiuti, inclusi il CSS e il compost, va ovviamente monitorata con attenzione per prevenire possibili comportamenti illeciti, facilitati da normative più permissive o controlli più disattenti.

In un simile scenario, il servizio pubblico assume un ruolo sempre più residuale – il che non significa però necessariamente ridotto, né tanto meno semplificato.

Il servizio pubblico dovrà essere inteso come clearing-house che assicuri il regolare trattamento di tutti i flussi non altrimenti valorizzabili e insieme faccia da baluardo contro la tentazione di adire pratiche scorrette o illegali.

È dalla continua interazione tra queste dimensioni che, a mio avviso, discende la ragione dell’assoggettamento del settore alla regolazione, che richiede tuttavia un approccio coerente con le caratteristiche del settore.

La distinzione operata dal legislatore – smaltimento in pianificazione, riciclo e recupero sul mercato – risulta artificiosa e non tiene conto del “monopolio di fatto” esercitato da molti impianti anche di recupero (specie energetico).

La regolazione messa in campo da ARERA, in particolare nel campo degli impianti di trattamento, ha dovuto adattarsi a una realtà in continuo mutamento. L’assoggettamento alla regolazione delle “tariffe al cancello” presupponeva che fossero le Regioni ad individuare quali fossero gli impianti ancora fondamentali per garantire l’autosufficienza territoriale e da assoggettare a regolazione. Questa soluzione si è rivelata tuttavia discutibile soprattutto per quegli impianti – come i digestori anaerobici – che di fatto operano già su un mercato abbastanza competitivo. Una serie di sentenze del Consiglio di Stato[1] ha in ogni caso dichiarato che non possono essere le Regioni ad individuare gli impianti da assoggettare a regolazione, trattandosi di materia relativa alla concorrenza e pertanto di competenza statale.

Nel dispositivo delle sentenze si legge che ARERA “non solo ha indirizzato il potere programmatorio delle Regioni, avocandosi un potere di direttiva attribuito allo Stato, che il legislatore non ha inteso delegarle” ma ha di fatto “arricchito di contenuti ad esso estranei il potere pianificatorio delle Regioni, individuando la soluzione ‘normativa’ alle criticità impiantistiche nella sostanziale acquisizione al sistema pubblicistico di impianti operanti in regime di libera concorrenza”.

Dovrà essere il legislatore nazionale, a questo punto, a provvedere alla creazione di un sistema adeguato, non essendo possibile – ancora per molto – fare conto unicamente sulla concorrenza.

La strada da battere, a nostro avviso, è quella di prevedere per gli impianti di trattamento una pianificazione “di ultima istanza” che operi alla scala sovraregionale, lasciando alla sfera regionale solo le attività di trattamento intermedio (TMB) e lo smaltimento finale (discarica). Ad esempio, l’accesso agli impianti di “chiusura del ciclo” potrebbe basarsi su uno schema a più livelli, superando il regime della pianificazione.

Ad un primo livello, i detentori dei rifiuti (le aziende che li raccolgono o che gestiscono gli impianti di trattamento intermedio come i TMB) dovrebbero cercare sul mercato, tramite contratti di lungo termine o aste, di procurarsi la capacità necessaria. Compito del regolatore a questo stadio dovrebbe essere quello di verificare l’effettiva concorrenzialità del sistema di approvvigionamento e, nel caso in cui si riscontrassero situazioni di “monopolio di fatto”, intervenire con veri e propri strumenti di regolazione come la fissazione di tariffe massime. In tal modo ARERA potrebbe definire e aggiornare un “prezzario” nazionale (eventualmente articolato a livello regionale o macroregionale) che rappresenterebbe la "base d'asta"; i prezzi risultanti dovrebbero essere accettati obbligatoriamente dai soggetti gestori. Se con questo punto di partenza non vi fossero offerte sufficienti, si potrebbe bandire una seconda asta senza vincolo superiore, che i gestori avrebbero la facoltà di accettare, oppure rifiutare rivolgendosi al livello superiore.

Tutti gli operatori che non sono riusciti a procurarsi in tal modo un’adeguata capacità, o che non vorranno accettare le condizioni economiche maturate nella seconda asta, potranno rivolgersi, a condizioni economicamente penalizzanti, a un secondo livello, operante alla scala nazionale o macro-regionale. Per non urtare gli assetti di potere consolidati ed evitare possibili conflitti di attribuzione, questo secondo livello potrebbe essere aperto al contributo delle Regioni, io immagino una sorta di “Commissione Stato-Regioni” permanente, che potrebbe sostituire in toto l’istituto commissariale.

Il soggetto operante a questo livello, una sorta di “acquirente unico” raccoglierà per tempo le “prenotazioni” da parte di chi ne ha bisogno e procurerà la capacità di trattamento necessaria, in Italia o all’estero, tramite meccanismi di mercato o “requisendola” con strumenti di pianificazione, in tal caso ricorrendo a tariffe regolate da parte dell’Autorità. In un’altra occasione ho proposto di creare un “mercato dell’anno prima”, in analogia con il “mercato del giorno prima” applicato nel settore elettrico. Dovrà essere possibile ricorrere allo “smaltimento di ultima istanza” anche con minore preavviso, eventualmente anche in emergenza (es. per far fronte a un fermo-impianti imprevisto), con una penalità proporzionalmente maggiore.

 
* Antonio Massarutto, DIES, Università di Udine
 
NOTE


[1] Si tratta delle sentenze 10548, 10550, 10734 e 10775 del 2023