DALLA XV CONFERENZA PER L’EFFICIENZA ENERGETICA
L’autore, che da anni denuncia l’opacità dei dati utilizzati dalle autorità scientifiche internazionali per calcolare l’impronta di carbonio dei pannelli fotovoltaici cinesi, sintetizza per noi gli effetti dell’interventismo pubblico in favore di alcune tecnologie che dovrebbero sostituire i combustibili fossili: distorsioni sul mercato energetico e, più in generale, in quelli finanziari. Ma, soprattutto, le emissioni globali aumentano di più, anche a causa dello sviluppo tumultuoso dell’industria green.
In Copertina: Immagine dal Canale Youtube Cuorfolletto (https://www.youtube.com/@Cuorfolletto )
Da anni oramai c’è un feroce dibattito sul concetto di green bubble, bolla verde.
Negli ultimi dieci anni, infatti, le principali economie globali hanno iniziato a investire un fiume di denaro per sostenere un pugno di tecnologie che dovrebbero traghettare l’umanità verso la decarbonizzazione del sistema energetico. A partire dal 2016, poi, alle risorse finanziarie si sono andati sommando i primi vincoli normativi, mirati a ridurre artificialmente la competitività dei combustibili fossili e, di conseguenza, agevolare la transizione verso forme alternative di energia.
Questa delicatissima operazione a cuore aperto all’economia globale ha inevitabilmente sollevato delle perplessità e alimentato delle resistenze. Un sistema basato sull’energia rinnovabile sarà in grado di garantire lo stesso benessere diffuso garantito da quello basato sull’energia fossile? Le economie avanzate hanno il diritto morale di imporre alle economie emergenti e ai Paesi in via di sviluppo di lasciare la loro quota di combustibili fossili sotto terra? La transizione energetica farà esplodere le disuguaglianze all’interno dei sistemi democratici? Tra trent’anni quanto costeranno il litio, il rame, la grafite? E l’elettricità?
Intorno a queste incognite si è condensato il concetto di bolla verde. Secondo alcuni esperti, infatti, l’interventismo pubblico ha alimentato delle dinamiche speculative, che hanno portato a distorsioni sia sul mercato energetico sia, più in generale, in quelli finanziari. Una domanda, però, è rimasta in secondo piano, e probabilmente dovremmo riflettere sul fatto che sia rimasta in secondo piano: ma siamo sicuri che gli strumenti su cui stiamo investendo centinaia di miliardi l’anno ci aiutino realmente ad abbattere le emissioni climalteranti?
Difatti, se è certo che la transizione ecologica non è una moda, non è altrettanto certo che i passi compiuti sinora vadano nella giusta direzione. La grossa difficoltà di questa transizione è che ci impone di pensare fuori dagli schemi, perché gli schemi che abbiamo in testa sono parte del problema.
All’inizio degli anni 2000, quando l’industria fotovoltaica muoveva i suoi primi passi, i leader di mercato si preoccupavano di ridurre al minimo l’impatto ambientale del loro prodotto. Gli impianti manifatturieri di REC Silicon, per esempio, erano alimentati con energia idroelettrica. I pannelli erano fatti per durare, le celle fotovoltaiche erano il 25/50% meno efficienti di quelle attuali perché erano spesse 300 o 400 micrometri.
Poi, però, la necessità di ridurre costantemente i prezzi dei moduli ha decretato il tramonto dell’industria fotovoltaica euro-americana e l’ascesa di quella cinese, che poteva contare su un impareggiabile vantaggio competitivo: una rombante industria del carbone, sussidiata dallo Stato, con cui alimentare gli impianti manifatturieri (anch’essi sussidiati dallo Stato).
Nel frattempo le celle fotovoltaiche sono dovute diventare sempre più sottili per garantire un’efficienza sempre maggiore. Però per fabbricare celle fotovoltaiche di 250, 200 o 180 micrometri non basta il silicio puro al 99.999/99.9999%, serve un silicio di tre o quattro ordini di grandezza più puro. E per aumentare di tre o quattro ordini di grandezza la purezza del silicio sono necessariprocessi industriali più complessi, quindi più macchinari, più energia, più sostanze chimiche. Non solo, celle più sottili significa celle più fragili, maggiormente soggette a microfratture e stress termico. Di conseguenza, mentre i pannelli di vent’anni fa erano garantiti per 30 anni, quelli di oggi di media sono garantiti per 10 o 12.
E non ci sono solo i panelli. Vent’anni fa lo sviluppo dell’energia solare aveva come modello la villetta tedesca a basso consumo energetico o la piccola comunità californiana staccata dalla rete, oggi progettiamo di elettrificare tutti i consumi finali di energia, di installare centinaia di GW di batterie al litio e di ampliare la rete elettrica globale con 130 milioni di km di linee a bassa, medi e alta tensione, una distanza maggiore di quella che separa la Terra dal Sole.
Insomma, mentre ci convincevamo di aver trovato nei pannelli fotovoltaici una soluzione alla crisi ambientale, l’industria fotovoltaica ha iniziato a prendere la forma di una metastasi incontrollabile del modello di sviluppo di cui vogliamo liberarci.
Già di per sé questa presa di coscienza sarà un boccone amaro da mandare giù per chi, come ampi settori del mondo della politica e di quello della cultura, sostiene da vent’anni che il sole e il vento non costano nulla e non causano emissioni. Ma i copiosi investimenti pubblici e gli accordi internazionali hanno creato un nuovo problema. Da una decina d’anni, infatti, le aziende hanno iniziato a monetizzare – direttamente o indirettamente – i loro impegni ambientali. Se pale e pannelli aiutano a ridurre le emissioni, perché non mettere nero su bianco questi tagli nei bilanci aziendali? E il mercato a iniziato a premiare le aziende più virtuose, cioè quelle che installano più pale e pannelli.
Alla base di questo meccanismo, però, c’è un grande cono d’ombra.
L’anno scorso il Guardian in collaborazione con Corporate Accountability ha condotto un’indagine shock sui maggiori progetti di carbon offsets, cioè di compensazione delle emissioni attraverso strumenti naturali (afforestazione, riforestazione, agricoltura rigenerativa etc). Su 50 progetti, 39 hanno evidenziato gravi lacune metodologiche che mettono in dubbio la reale capacità del progetto di garantire assorbimenti di CO2, 8 sono considerati problematici e i restanti 3 non mettono a disposizione dati adeguati per appurare la robustezza dei risultati. Dal fronte rinnovabilista, che da anni sostiene che qualsiasi soluzione alternativa a pale e pannelli è solo un distrattore, si è sollevato un coro di riprovazione. “Cosa vi aspettavate da progetti di riduzione volontaria delle emissioni, che per di più le aziende si autocertificano?”.
Il problema è che anche per pale e pannelli funziona alla stessa maniera.
Il motivo per cui nessuno ha avuto nulla da dire mentre l’industria fotovoltaica è arrivata a emettere oltre un miliardo di tonnellate di CO2 l’anno è proprio questo: l’industria fotovoltaica (cinese) si autocertifica le emissioni. E lo fa adottando una contabilità e metodologie creative, per usare un eufemismo.
Questa è la bolla verde. Le aziende, i fondi, le banche stanno certificando – e quindi monetizzando – tagli delle emissioni basati su garanzie di carta, frutto di “virtuosismi statistici” e distorsioni metodologiche.
Presto o tardi, però, il gioco è destinato a rompersi. Le emissioni continuano ad aumentare ed è sempre più difficile nascondere che una parte di questi aumenti è legata proprio allo sviluppo tumultuoso dell’industria green e ai suoi effetti feedback su altri settori, come quello dei materiali. A questo punto, chi si è esposto ha di fronte a sé una scelta dolorosa: correggere gli errori per conto proprio, incorrendo nelle ire degli azionisti e in perdite controllate, oppure aspettare che sia il mercato a farlo.