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2024-09-08 22:11

Fare Come in Passato: Imparare a Prevenire

ALLUVIONE IN ROMAGNA

di: 
Daniele Vasilevski

Non è sempre la stessa storia. Anzi, quando si tratta di alluvioni, è sempre una storia diversa. Storie, purtroppo, anche di vittime e di danni gravissimi. Sempre rinnovata invece è la richiesta di investire in politiche coerenti di prevenzione, di manutenzione e cura del territorio, imparando dagli errori e dallo studio delle caratteristiche dei nuovi eventi. L’autore, appassionato di meteorologia, svolge per noi una valutazione complessiva dell’alluvione in Emilia Romagna proponendosi di evitare il più possibile il tifo, l’esagerazione e la propaganda.

In Copertina: Immagine dal video registrato dai Vigili del Fuoco - RavennaToday
 

Sono passati pochi giorni dall'alluvione che ha travolto la Romagna, un'alluvione che oltre ai milioni di danni si è portata via 15 persone. Le domande che ci poniamo in seguito a eventi simili, soprattutto in un periodo storico in cui la sensibilità ambientale della popolazione è in costante crescita, sono molte.

Perché è successo?  Il clima sta cambiando? Si può fare qualcosa a riguardo? Si poteva fare di più per limitare i danni? Cosa non ha funzionato? Di chi è la colpa?

Cerchiamo di inquadrare la situazione tra storia del territorio, attualità e possibili sviluppi futuri.

 

Il quadro meteo-climatico

Lunedì 15 maggio un ciclone mediterraneo (Minerva) è andato approfondendosi dal Canale di Sicilia verso il Mar Tirreno raggiungendo valori di pressione ragguardevoli per il mese di maggio. Ha scatenato una tempesta di bora sull'Adriatico settentrionale tale da rendere necessaria l'attivazione del MOSE per proteggere la Laguna di Venezia dall'alta marea (95 cm alla Diga Sud Lido e Faro in serata). Vento di bora che ha insistito per 48 ore sull'Emilia Romagna spingendo ingenti quantitativi di vapore acqueo verso l'Appennino, provocando prima le intense e persistenti precipitazioni, e ostacolando poi il deflusso dei fiumi verso il mare.

Le precipitazioni più intense hanno interessato l'area pedemontana compresa tra il bacino del Sillaro e del Savio, dove localmente si sono toccati i 250 mm di accumulo nell'arco di 36 ore. Precipitazioni intense che sono arrivate a due settimane di distanza da un'altra perturbazione che aveva colpito esattamente la stessa zona con accumuli molto simili. La vicinanza temporale di questi due eventi ha creato i presupposti per il disastro sul fronte delle frane. I terreni ancora saturi in seguito alla perturbazione di inizio mese non hanno retto il secondo carico: 300 frane risultano attive.

Dal punto di vista climatico la regione non è nuova ad eventi simili. La storia della regione, come quella di buona parte del nostro paese, è strettamente legata agli episodi alluvionali. Ciò nonostante, registrare in meno di un mese due episodi con accumuli pluviometrici così rilevanti può essere considerato un evento più unico che raro nell'arco temporale della vita umana.

I “buchi” di dati negli Annali Idrologici e l'assenza di uno storico su buona parte delle stazioni meteorologiche presenti oggi sul territorio, rendono complessa la valutazione statistica degli eventi. Utilizzando quanto presente possiamo comunque ritenere queste perturbazioni eccezionali, poiché consultando circa 120 anni di dati il conteggio di episodi singoli simili si riduce alle dita di una mano. Registrarne due nello stesso mese non fa altro che accentuare l'aspetto di eccezionalità dal punto di vista statistico.

 

Meteo e cambiamento climatico antropogenico

Collegare un evento singolo come quello in questione al riscaldamento globale di origine antropica (Anthropogenic Global Warming, AGW) è praticamente impossibile: una perturbazione simile si sviluppa in circostanze particolari e i fattori naturali che concorrono alla sua formazione sono preponderanti rispetto a qualunque aspetto legato alle attività umane. Legati alle attività umane invece possono essere gli effetti sul territorio, dove i nostri lavori possono fungere da innesco per le frane o favorire l'accumulo molto rapido della pioggia a valle per effetto della cementificazione. Eventi simili possono non ripetersi per 50/100 anni o tornare nell'arco di pochi giorni, come accaduto.

Gli scenari climatici futuri ci dicono che all'interno di una perturbazione simile potremo avere mediamente degli accumuli superiori a quelli che si registravano in passato ma non ci potranno mai dire con certezza che eventi come questo avranno una frequenza superiore sul territorio romagnolo. I possibili sviluppi di una situazione barica continentale come quella che abbiamo vissuto sono molteplici e sempre diversi, dipendenti da una miriade di variabili che creano una quantità di combinazioni quasi infinita.

Eventi alluvionali simili sono sempre esistiti e sempre esisteranno. Con lo sviluppo tecnologico il loro impatto è stato nettamente ridotto, con i decessi legati ad essi in costante diminuzione. Rispetto al passato, dove la tecnologia era molto limitata, le nostre analisi che porteranno a nuovi interventi di mitigazione del rischio dovranno necessariamente tenere conto degli scenari climatici futuri più probabili per non ritrovarsi impreparati di fronte alle nuove situazioni meteorologiche eccezionali. L'eliminazione dell'impatto umano a livello di gas climalteranti non renderà il clima più clemente, gli eventi meteorologici estremi saranno sempre parte del clima del nostro paese.

 

Il contesto idro-geologico

Dati ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) alla mano, la popolazione dell'Emilia Romagna risulta essere tra le popolazioni italiane più a rischio frane e alluvioni. La ragione di questa condizione è da imputare principalmente alle cause naturali, alle quali vanno aggiunte quelle antropiche. L'Italia presenta un territorio morfologicamente fragile perché geologicamente giovane.

Secondo l'Inventario dei Fenomeni Franosi in Italia (IFFI), sul territorio dell'Emilia Romagna sono presenti oltre 80000 frane. A complicare un quadro geologico regionale già complesso abbiamo l'aspetto idrologico romagnolo: torrenti e fiumi molto vicini tra loro che una volta arrivati nella media pianura hanno diverse decine di chilometri da percorrere, fino alla confluenza con il fiume maggiore o alla foce, in cui il corso diventa molto lento per via della quasi totale assenza di dislivello. Buona parte del territorio della pianura presenta un'elevazione inferiore ai 20 metri.

La necessità di grandi opere

In un contesto naturale del genere, in Romagna l'uomo ha sempre dovuto combattere contro le inondazioni. Prima dei grandi interventi di bonifica degli ultimi secoli, il corso dei fiumi nel tratto di media e bassa pianura era in costante cambiamento: ad ogni piena si associava un nuovo alveo, rendendo così difficilmente abitabile la zona per via della totale inaffidabilità dei corsi d'acqua. A causa della lieve inclinazione del terreno i fiumi ad ogni piena interrivano il proprio alveo. Il risultato era un'elevazione dei corsi d'acqua rispetto al piano di campagna e di conseguenza un costante straripamento.

Nel tratto di pianura più vicino al mare era perciò presente un'immensa distesa paludosa, la Valle Padusa. Essa si estendeva in modo continuo dalla foce del Po alla zona di Ravenna (un tempo in riva al mare). Nei periodi di piena dei fiumi pressoché l'intera area che costeggia l'Adriatico settentrionale, dal ravennate al Friuli, era una distesa paludosa. La laguna di Venezia e le Valli di Comacchio erano parte integrante di questa immensa zona umida. Area paludosa che arrivava a ridosso di Ferrara, dove fino all'alto medioevo scorreva il fiume Po (Po di Primaro). Questa palude esisteva nella sua porzione meridionale poiché i fiumi romagnoli non riuscivano a raggiungere il principale fiume padano. Il Po, anche nei periodi di magra, manteneva una portata sufficiente a farsi strada attraverso la Padusa.

Il grande fiume del nord Italia lungo il suo percorso riusciva a creare degli argini naturali grazie ai sedimenti che portava a valle soprattutto durante le piene. Per questo motivo i torrentizi fiumi romagnoli, una volta avvicinatisi alla confluenza, trovavano negli argini naturali creati dal Po un ostacolo insormontabile al punto da essere costretti a tornare verso sud. L'area di pianura compresa nel triangolo tra Bologna, Argenta e Cesena risultava essere ad un'altitudine più bassa rispetto all'alveo dei fiumi. In questo complesso quadro naturale le inondazioni di zone considerate sicure (isolotti) erano assai frequenti, tali da rendere indispensabile l'intervento umano sull'idrografia regionale per poter sviluppare la società in maggiore sicurezza.

Per lunghi periodi gli interventi furono solamente locali e spesso osteggiati da parte delle comunità vicine: un intervento in area bolognese poteva essere sfavorevole per i ferraresi che quindi facevano il possibile per fare in modo che non lo realizzassero. Questo tira e molla andò avanti fino al XVI secolo quando con Aleotti (architetto e ingegnere, 1546-1636) si cominciarono a vedere i primi grandi piani di bonifica con l'obiettivo di ridurre il più possibile l'escursione stagionale che i corsi presentavano. Piani che dovettero attendere altri 200 anni prima di vedere la luce. Con i lavori di Lecchi (ingegnere idraulico, 1702-1776) della fine del Settecento si arrivò ad un progetto di assetto idrografico molto simile a quello che ritroviamo ancora oggi, con una divisione tra acque alte (fiumi arginati) e acque basse (acque piovane e di scolo raccolte dai canali). L'obiettivo era quello di svuotare le valli dell'acqua ristagnante in modo da poterle coltivare. Un cambiamento radicale che avrebbe stravolto il paesaggio dell'intera area.

 

Dal Novecento a oggi, tra progresso e nuovo ambientalismo

Il progetto di Lecchi non fu solamente un lavoro che portò cambiamenti idrologici, fu un progetto che portò ad un totale sconvolgimento culturale nella popolazione che risiedeva nella zona. Si dovette aspettare il secolo scorso per vedere il lavoro ultimato, ma il cambio di visione fu avvertibile fin da subito. Dalla preistoria al Rinascimento in quella zona si è vissuto di pesca e poco altro, tra malattie figlie del ristagno delle acque e inondazioni che minacciavano i piccoli isolotti su cui erano presenti le comunità. Una vita difficile in una zona che economicamente con il passare del tempo non poté più competere con altre aree del paese o d'Europa.

Questa decisione di asciugare le valli portò (e ha tuttora) degli enormi benefici sia in termini economici sia in termini di salute. Una virata di attività e pensiero verso l'efficienza economica: cercare di rendere migliore un territorio che si presenta molto sfavorevole, mettere in ordine ciò che sembra confuso e irrazionale. Pensiero che si è evoluto fino alla seconda parte del Novecento quando negli anni 70 si combatteva ancora con la povertà nelle zone periferiche di pianura e montagna e si era costantemente in lotta contro una natura imprevedibile e implacabile nel mostrare i nostri limiti.

Con l'avvento dell'industria il rapporto uomo-natura è andato modificandosi per l'allontanamento dell'uomo dalla terra, con la natura che non è più stata vista come parte della quotidianità da rispettare e temere cercando di limitarne l'influenza sulle nostre vite, bensì come un'entità superiore da preservare dall'influenza antropica, con l'uomo non più “faber fortunae suae” ma piuttosto “faber calamitatis suae”.

In un mondo sempre più vicino all'ambiente a parole e distante nei fatti, spesso il territorio è stato colpevolmente abbandonato. La natura va sempre avanti, muta, si adatta; non rimane ad aspettare una nostra decisione o rispetta una scelta che dovrebbe “farla stare bene”. La natura non ha morale: non conosce i concetti di bene o male che noi applichiamo ad ogni aspetto della nostra vita. E così oggi ci ritroviamo con infrastrutture sempre più vecchie e malandate che se messe sotto pressione non rispondono più come un tempo agli stimoli meteorologici. Stimoli meteorologici che secondo i rapporti dell'IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) aumenteranno di intensità nei prossimi decenni. In uno scenario in cui avremo bisogno di infrastrutture all'avanguardia per rispondere ai cambiamenti climatici ci stiamo accontentando di quanto i nostri predecessori ci hanno lasciato, operando spesso solo in situazioni emergenziali per tamponare quando oramai il danno è fatto.

 

Un capolavoro ingegneristico su cui lavorare

In passato non avevano la tecnologia per prevedere uno scenario climatico a lungo termine, eppure gli interventi sono stati lungimiranti e hanno permesso alla regione di svilupparsi e prosperare. Interventi che hanno profondamente modificato l'ambiente romagnolo e finché l'uomo abiterà queste terre con ogni probabilità non potrà tornare ad essere quello precedente. Questo aspetto ci regala un punto di partenza sulle decisioni da prendere: abbiamo un capolavoro ingegneristico su cui lavorare. Capolavoro che ha e avrà bisogno di manutenzione perché al netto dell'eccezionalità degli eventi che hanno sconvolto la regione, il fatto che in oltre 20 corsi d'acqua gli argini si siano sgretolati anche in più punti nell'arco di 24 ore, rimane qualcosa che non deve accadere.

Allo stato attuale appare molto difficile districarsi nel ginepraio di informazioni che ci circonda, ma una volta che l'onda emotiva si sarà almeno parzialmente ritirata potremo fare una profonda analisi per capire cosa è andato storto. Al momento ci si divide tra chi chiede un ripristino delle condizioni naturali degli alvei e chi invece chiede interventi strutturali massicci. Un ripristino delle condizioni di secoli fa appare inverosimile: la natura di quei corsi d'acqua non farebbe altro che minacciare la nostra vita e le nostre attività. Una riqualificazione di diversi tratti dei corsi d'acqua (specie ove la pensilità è ancora accentuata) sarebbe comunque auspicabile, anche se spesso molto complessa a causa della vicinanza con le attività umane.

Cosa sarebbe preferibile fare per proteggere la nostra vita? Partire dalla manutenzione delle infrastrutture presenti e porre un freno alla cementificazione che non fa altro che accentuare gli effetti delle piogge. Guardare agli esempi virtuosi di altre regioni italiane come il Veneto, che in seguito alla disastrosa alluvione del 2010 si è dotata di nuovi bacini di laminazione che con l'alluvione del 2018 si sono rivelati fondamentali. Un bacino di laminazione è una sorta di parcheggio momentaneo per l'acqua: un'area destinata ad accumulare una parte della piena del fiume in modo da abbassare il rischio di straripamento dello stesso più a valle.

Potenzialmente anche un solo bacino di laminazione può fare la differenza. Se si decide di operare in tal senso, si considera la portata massima che un fiume può raggiungere e in base a quella si trova un luogo idoneo in cui laminare tot milioni di metri cubi di acqua che il fiume non può sopportare. Questo maggio 2023, considerata l'eccezionalità dell'evento che abbiamo vissuto, fornirà un'enorme mole di dati agli esperti che faranno le valutazioni delle potenziali portate massime dei fiumi. Alzare gli argini può invece non essere una soluzione: nel tratto terminale la pendenza è molto ridotta e il mare rischierebbe di fare da diga, soprattutto in eventi simili a quello appena trascorso in cui il vento di bora non permetteva il normale deflusso della piena. Scavare il fondo può essere una soluzione solo locale e utile solo in caso di piene ordinarie: come per l'innalzamento degli argini, il mare finirebbe per essere un nemico considerata la pensilità del tratto finale dei fiumi.

Molto più importante di questo intervento invece, è quello di pulizia degli alvei. In molti casi la sezione fluviale risulta estremamente ridotta dalla presenza di alberi e detriti di vecchie piene. Per anni, persino decenni, un fiume può non presentare delle criticità e per questo motivo può risultare poco pericoloso ai nostri occhi e quindi rimanere trascurato.

In conclusione, qualunque intervento verrà preso in considerazione dovrà essere coerente sull'intero territorio: non si può pensare di trattare dei corsi d'acqua con caratteristiche molto simili in maniera diversa a seconda delle scelte di un amministratore piuttosto che di un altro. Da situazioni simili dobbiamo fare come nel passato: imparare. Imparare che senza seri piani di prevenzione i rischi aumenteranno a prescindere dai cambiamenti climatici; imparare che la natura può sorprenderci in qualunque momento.

Ulteriore contributo

Scritto molto equilibrato ed interessante che non mi permetterei di definire "meno affidabile" di quello di Luca Mercalli.
Un altro contributo ove vengono presentati parecchi dati puo' essere letto in
http://www.climatemonitor.it/?p=58210

Contributo di Luca Mercalli

E' interessante e forse più affidabile il commento intervista a Luca Mercalli sull'alluvione in Romagna. Se non altro perchè è un meteorologo professionista e segue/studia da specialista il rapporto tra questi eventi climatici e l'effetto serra....:
https://m.facebook.com/watch/live/?ref=watch_permalink&v=700317831770589...