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2024-03-19 08:35

L’aumento dei Consumi “Senza” Rivela la Sensibilità dei Consumatori. Non Ancora la loro Consapevolezza

MARKETING E GREENWASHING

di: 
Carlotta Basili

Gli ultimi anni hanno visto una forte crescita nella domanda dei prodotti “senza”, che hanno ottenuto uno spazio sempre più rilevante sugli scaffali dei supermercati. Dal “senza olio di palma” al “senza conservanti” i consumatori sono attratti da questi claim pensando che la loro scelta tuteli la salute e protegga l’ambiente. Il Centro di ricerca in psicologia dei consumi dell’Università Cattolica di Cremona (EngageMinds HUB) ha effettuato una ricerca per comprendere meglio il fenomeno.

I prodotti “free from” sono caratterizzati dalla presenza sul packaging di una serie di claim che indicano l’assenza di qualcosa, come ad esempio: “senza zuccheri”, “senza olio di palma”, “senza grassi idrogenati”, “senza conservanti”.

Il fenomeno del “free from” nel settore alimentare è un trend internazionale degli ultimi anni che recentemente sta conquistando anche nel nostro paese un numero crescente di consumatori, soprattutto in seguito ai mesi di lockdown nel 2020. Durante la pandemia, le persone hanno da una parte riscoperto il piacere di cucinare, dall’altra hanno cambiato le proprie abitudini di consumo per acquistare prodotti percepiti più utili alla tutela della propria salute portando, con una crescita della domanda del +6,1% rispetto al 2019, il mercato dei prodotti “senza” a sviluppare un giro d’affari di circa 7 miliardi di euro (Osservatorio Immagino, 2021).

Una categoria di prodotti simili raccoglie quelli in cui sono eliminati ingredienti legati alle intolleranze alimentari, come “senza glutine” e “senza lattosio”. La crescita delle vendite di questi prodotti, che nel 2020 si sono attestate sui  4 miliardi di euro, con un aumento della domanda dell’8,3% rispetto al 2019, è dovuta all’aumento, nell’ultimo ventennio, della percentuale di persone che soffrono di patologie correlate all’alimentazione, tra cui le intolleranze e le allergie alimentari.

Per quanto riguarda, invece, i prodotti “free from” veri e propri, le motivazioni che portano ad acquistare questi prodotti sono sia di natura salutistica che etico-ambientale.

Negli ultimi anni, infatti, i consumatori sono diventati più attenti  rispetto al contenuto nutrizionale di ciò che acquistano tendendo ad escludere dalla propria dieta ingredienti considerati dannosi per la salute, come i grassi saturi, gli zuccheri e l’olio di palma.

Insieme a questo è cresciuta anche l’attenzione verso valori di tipo etico, quali rispetto dei lavoratori e dei diritti umani, e di tipo ambientale, quali salvaguardia degli animali e degli ecosistemi, uso di energie rinnovabili e ridotte emissioni di gas serra.

Lo studio “I consumi “senza”: tra false credenze e paure degli italiani” di EngageMinds HUB (Il Centro di ricerca in psicologia dei consumi dell’Università Cattolica di Cremona) è andato ad indagare come il consumatore percepisce la qualità, la salubrità e la sostenibilità ambientale e sociale dei prodotti “senza” rispetto ai prodotti tradizionali e come questa etichetta influisca sulle intenzioni di acquisto.

È stato somministrato a 1200 soggetti un questionario creato ad hoc, attraverso il quale venivano proposti all’intervistato un alimento salato (cracker) e uno dolce (merendina), immaginari e creati per l’esperimento, in un formato tradizionale o con etichette “senza”. Tra le etichette proposte due erano del tutto fittizie: una riportava la voce “senza CO2”, l’altra invece escludeva la presenza nel prodotto di “grassi polinsaturi”, un elemento nutrizionale in realtà importante per la salute.

La qualità del cracker e della merendina tradizionali è percepita come buona dal 38% dei consumatori coinvolti, ma questa percentuale aumenta in modo significativo quando al campione di cittadini sono presentati gli stessi prodotti con etichette “senza”: il 45% considera di qualità il prodotto “senza olio di girasole”, il 51% quello “senza olio di palma” e il 48% sia il prodotto “senza CO2“ che quello “senza grassi polinsaturi”.

Chiedendo al campione di consumatori coinvolto di  valutare la salubrità dei prodotti è risultato che, a fronte di un 32% che ritiene sani gli alimenti convenzionali, la percezione di salubrità è maggiore per i prodotti “senza olio di girasole” secondo il 40% dei cittadini, per i cibi “senza olio di palma” secondo il 51% e rispettivamente il 48% e il 46% della popolazione attribuiscono una maggior salubrità rispetto al prodotto convenzionale ai prodotti senza CO2 e a quelli senza grassi polinsaturi. 

Lo stesso atteggiamento è stato rilevato relativamente agli aspetti ambientali degli alimenti. Infatti, il 52% dei cittadini coinvolti ritiene i prodotti “senza olio di palma” più sostenibili dei convenzionali, il 47% quelli “senza olio di girasole” e risultano elevate anche le quote di consumatori che indicano come più rispettosi dell’ambiente i cibi “senza CO2” e “senza grassi polinsaturi”. Nel caso del claim “senza CO2” questo è probabilmente dovuto ad una connessione emotiva tra l’eliminazione dell’ingrediente fittizio “anidride carbonica” e una maggiore sostenibilità ambientale.

Queste valutazioni si riflettono anche sulle intenzioni di acquisto di questi prodotti tanto che i dati raccolti dimostrano che i consumatori sono più intenzionati ad acquistare alimenti con etichette “senza” rispetto al convenzionale.

I risultati dello studio mostrano quindi che il consumatore attribuisce ai prodotti “senza” una qualità superiore, sotto tutti i punti di vista, rispetto al prodotto convenzionale. In particolare, il claim “senza olio di palma” sembra essere percepito in modo ancor più positivo, probabilmente a causa della maggiore attenzione mediatica negativa che questo ingrediente ha subito negli ultimi anni.

Questa forte tendenza si riscontra anche in quei prodotti con etichette inventate, create appositamente per lo studio, dimostrando come l’etichetta “senza” abbia un forte significato intrinseco positivo per i consumatori. L’“effetto senza” induce i consumatori a pensare che un prodotto sia migliore e a preferirne l’acquisto anche in assenza di informazioni sul rischio dell’ingrediente eliminato, facendosi quindi guidare nelle proprie scelte dal claim invece che dalla valutazione degli ingredienti usati o rimossi.

La propensione a considerare migliore un prodotto a cui è stato rimosso un ingrediente richiama alla mente un pregiudizio anti-industriale, che parte dal presupposto che qualsiasi prodotto in serie sia da condannare a causa di additivi ritenuti inutili o addirittura malsani, senza alcuna considerazione per la loro funzione primaria, mentre ciò che è “fatto in casa” abbia una connotazione  di genuinità e garanzia di qualità a prescindere dalle condizioni effettive di produzione. In tal senso, l’eliminazione di uno degli ingredienti “cattivi” viene immaginata a favore di un prodotto più semplice e di ingredienti più familiari e quindi, ovviamente, migliori e salutari.

Pensando all’esempio più famoso, quello dell’olio di palma, si può immaginare che l’incremento delle vendite dei prodotti “senza olio di palma” sia stato dovuto soprattutto alla paura dei consumatori verso un ingrediente estraneo alla dieta quotidiana, che i media stavano condannando come nocivo per la salute e dannoso per l’ambiente. Perché, ci chiedevano dunque gli accusatori dell’olio di palma, ricorrere al suo utilizzo quando in Italia abbiamo il buonissimo olio di oliva? O, per i più golosi, il burro? Questo tipo di stimoli ha condotto i cittadini a pensare che il claim “senza olio di palma” sia indicazione della presenza nel prodotto di un olio di qualità maggiore e con un impatto sull’ambiente minore. La pubblicità negativa non ha permesso che ai consumatori arrivassero le informazioni reali riguardo all’olio di palma che, non solo è, in termini nutrizionali, similare ad altri oli vegetali, ma ha caratteristiche che lo rendono particolarmente adatto alle preparazioni alimentari e la cui filiera di produzione è stata tra le prime a dotarsi di un sistema di certificazione per garantirne la sostenibilità ambientale.

L’unione dell’“effetto senza” e la diffusione di informazioni incomplete o false riguardo a specifici ingredienti o ad una corretta alimentazione, hanno condotto quindi ad una situazione di confusione nei cittadini, spostando l’attenzione da ciò che l’alimento contiene a ciò che invece non contiene. In realtà, l’eliminazione di un determinato ingrediente comporta la sua sostituzione con un’alternativa non necessariamente migliore né dal punto di vista nutrizionale, né dal punto di vista di sostenibilità ambientale.

Dato che il packaging e l’etichetta costituiscono il mezzo comunicativo primario con cui un consumatore si informa e sulla base del quale orienta le proprie scelte d’acquisto risulta evidente la necessità di una definizione istituzionale dell’etichettatura che, evitando claim attrattivi ma fuorvianti, sia incentrata sulla semplicità e sulla trasparenza, aiutando ed educando i cittadini a valutare i prodotti in base al loro effettivo contenuto.