INGEGNERIA E SOCIOLOGIA
L’autore, assertore della necessità di un approccio multidisciplinare alle politiche pubbliche, riflette sulle inadeguatezze, in tutto il mondo, delle misure governative contro la pandemia. E ne ricava cinque lezioni per il futuro.
In copertina: Illustrazione di Chow Hon Lam aka Flying Mouse https://chowhonlam.com/
Dal principio di realtà al principio di cautela
Da alcuni aspetti potenzialmente positivi della esperienza di questa pandemia possiamo imparare molto. A condizione che, come si raccomanda a scuola, poi continuiamo a far sempre il ripasso.
Anzitutto può aiutarci a distinguere tra ciò che è eccezionale davvero, e ciò che non lo è. Le calamità, irrompendo con la loro magnitudo, sono improvvise. Ma ciò non vuol dire che su tempi sufficientemente lunghi non sia statisticamente prevedibile la loro periodica comparsa. Se poi applicassimo ogni tanto la matematica alla vita, constateremmo che una derivata forte non è di per sé indice di un livello elevato. Un salto forte di livello può avvenire con derivate impercettibili, basta dargli tempo. Noi tendiamo a comportarci come la rana bollita, che salta solo se la derivata di temperatura è forte. E allora vediamo cosa i recenti accadimenti ci possono insegnare.
Prima lezione, sul principio di realtà.
Questa pandemia può metterci in guardia da pericoli e insidie che diversamente, scivolando lentamente nella nostra vita, senza il COVID-19 non avremmo percepito. Può farci acquisire consapevolezza di quanto l’adattamento ambientale possa divenire distopico. Per dirla com’è: facciamo in modo che ciò – e soprattutto chi – è inciampato nella sfortuna di essere smascherato da questa derivata forte, mentre di soppiatto voleva farci bollire lentamente, non la faccia franca.
Evitiamo però la retorica della pandemia come una guerra. È stata fortunata la nostra generazione – e finora le successive - a non provare cosa sia, una guerra. Tra le mille sostanziali differenze, a chi le accosta con superficialità vorrei far notare che, perfino a parità di perdite umane (e già questa è una iperbole), in una pandemia uomini e donne si prodigano per salvare quanti più propri simili; in guerra tentano con ogni mezzo di ucciderne. Per non dire delle conseguenze economiche, che addirittura si contrappongono: la guerra distrugge il capitale, una pandemia essenzialmente il lavoro.
Ho sempre provato disagio per quelle frasi retoriche, pedagogicamente stucchevoli, del tipo: mai più. Anche ciò che non ci piace, può essere normale. Guerre e pandemie torneranno. E le guerre del futuro si combatteranno con i virus. Dopo il primo attacco con virus biologici, sul nemico che si riorganizza con tecnologie digitali si abbatterà un “second strike” di virus informatici. E l’incidente in tempo di pace, che ai tempi della polvere da sparo era l’esplosione della polveriera per colpa di un incauto artificiere, oggi può essere la fuga di un virus dal laboratorio per l’imperizia di un biologo. Proviamo quindi a considerarci fortunati di poter ragionare su questa calamità come se avessimo fatto solo una simulazione, della guerra. Ci servirà.
Seconda lezione, sul principio di precauzione.
La complessità delle nostre società avanzate richiede approcci, analisi, strategie interdisciplinari. Proprio ciò che è tragicamente mancato alle cosiddette classi dirigenti, in tutti i Paesi. E – ciò che è peggio - non sembra ci sia grande consapevolezza di questo errore. Noi comuni cittadini non sappiamo cosa davvero sa, chi sa. Forse, a pensar male, trasversalità ci sarà stata ad alto livello finanziario, industriale, geopolitico, là cioè dove non ci è dato accedere. O forse no, il complottismo sui perfidi poteri della globalizzazione egemone potrebbe risultare questa volta fuori luogo. Ma un fatto è certo: la politica della quotidianità (quella sempre più scadente e secondaria, delle élite a filiera corta per intenderci) è apparsa inadeguata più o meno ovunque.
Basti pensare alla totale, incredibile assenza di ingegneri nei comitati tecnici che hanno provato a delineare, per i decisori politici, possibili scenari di azione. Solo così si può tentare di spiegare la surreale – e nelle conseguenze tragica – sparizione, in tutto il mondo, del rinnovo dell’aria e della ventilazione degli ambienti chiusi dal novero delle azioni da intraprendere per la tutela delle popolazioni. Occultamento ispirato da una pervicace sciagurata negazione della trasmissione in aria del COVID-19 da parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (la quale ha resistito oltre un anno, fino al marzo 2021, a tenere il punto rivendicando una qualche legittimità a posizioni scientificamente insostenibili, pur di allontanare da sé il rischio dell’infamante ombra d’accusa di un crimine contro l’umanità). In Italia, basti rileggere quelle locandine azzurre istituzionali diffuse per tutto il 2020 e contenenti i decaloghi per la difesa epidemiologica, e rabbrividire per questa inconcepibile assenza. In nessun elenco era scritto anche solo “aprite le finestre, cambiate l’aria, ventilate scuole e negozi, aprite i finestrini degli autobus”. Mai. Assurdo! Da incorniciare e conservare – queste, sì - per far dire ai posteri, al rètore di turno: mai più!
Terza lezione: senza approccio interdisciplinare, nel mondo contemporaneo non può esserci progettualità.
Anche qui, purtroppo, l’esempio dell’Italia è di nuovo illuminante. Basti pensare alla sterile querelle sul fantomatico Piano pandemico. C’era … Non c’era … No, non era stato aggiornato … Forse sì, ma di facciata … Era vecchio del 2006 … Lo sa anche un bambino: qualunque lista della befana inevitabilmente confligge con i portafogli (oggi è politicamente corretto dire i bancomat) di mamma e papà. E allora, che piano poteva essere anche quello del 2006, in cui a ogni insieme di azioni delineate non erano associate non dico stime, ma neanche vaghe formulazioni dei corrispondenti costi? Come poteva il decisore politico fare scelte, stabilire priorità, impegnarsi a procurare i mezzi, approvvigionare i presìdi, se non aveva gli elementi – sottolineo: neanche solo elementi - di costo per elaborare e impegnare un budget? Non poteva essere un piano, un progetto: per noi ingegneri un progetto senza costi non è un progetto. Riconosciamolo, un piano non c’è mai stato. Era poco più di una tesi di laurea. Ma solo … triennale! (E i malavitosi ringraziano: tra le azioni prioritarie, un vero Piano pandemico dovrebbe prevedere una logistica della sanità penitenziaria sostitutiva delle scarcerazioni che hanno invece permesso alle cupole di riorganizzarsi per pianificare i prossimi dieci anni di malaffare).
Quarta lezione, sulle insidie della tecnologia.
La natura umana dispone mediamente di difese, strategie e atteggiamenti di auto-protezione e tutela, che si sono affinati in milioni di anni in contesti ambientali caratterizzati da prossimità spaziale e temporale dei pericoli, e da naturalezza degli stimoli (batteriologici, emotivi, uditivi, visivi, e ancor prima olfattivi). Nel breve volgere di pochi decenni molte cosiddette tecnologie hanno stravolto il contesto che i nostri sensi e le nostre difese immunitarie devono fronteggiare: dai virus sviluppati in laboratorio alle nuove artificialità delle dimensioni percettive, dalla realtà aumentata alla digitalizzazione comunicativa. Basti solo pensare allo straniamento conseguente al sovrapporsi tra loro, e poi all’ambiente reale, di webinar e videoconferenze certo utili, ma oggi così abusate. Oppure alla impostura, complice la mirata affabulazione linguistica, di un cosiddetto “smart working”. Altro che “agile”, suona come una presa in giro del lavoratore emarginato dai luoghi - e dai contatti fisici - di chi decide, così, a sua insaputa. Il sogno dei padroni: disaggregare i lavoratori, avrebbe detto Marx! Sarebbe più pertinente chiamarlo “blind working”, anzi “dark working”: lavoro cieco, al buio. In cambio di una ambivalente comodità oltretutto alienante, con “il favore delle tenebre” infatti pochi presenti fanno e decidono quel che vogliono lontano dagli occhi, dal controllo, e soprattutto dalle intuizioni emotive degli assenti.
Quali saranno le conseguenze psicofisiche a breve di questi abusi, che già i pescecani del web pregustano di somministrarci nella nuova “normalità” - il Great Reset, lo chiamano già così senza pudore - fin dall’immediato futuro? Pensate solo a quanti studi novecenteschi sulla ergonomia della postazione di lavoro … ridicolizzati in pochi mesi. Perché una cosa è certa: loro non aspetteranno l’adattamento millenario della evoluzione della specie che renda sostenibili senza danni queste pervasive nuove tecnicalità. Dovremmo interrogarci su quali tecnologie sono utili a noi, e quali invece sono utili al capitale che le promuove, e alla sottostante finanza speculativa. La pandemia ci ha impietosamente aperto gli occhi; riusciremo a mantenerli aperti dopo, anche solo a medio termine?
Quinta lezione, corollario delle precedenti, sulla contaminazione dei saperi.
Sarebbe ormai tempo di introdurre nelle scuole l’insegnamento dei fondamenti della sociologia. Il bisogno dei nostri giovani – e a maggior ragione di noi tutti – di disporre dei mezzi più elementari per decifrare le dinamiche della globalizzazione e della relativa strumentale comunicazione, è sempre più vitale. Avere la possibilità di percepire tempestivamente con il proprio giudizio le evoluzioni sociotecnologiche più insidiose, e insieme di discernere e promuovere collettivamente le più utili; o di orientarsi nei confronti di media sempre più pervasivi, ammalianti o arroganti a seconda del target di prede, eviterebbe due opposte aberrazioni. A un estremo, l’estorsione di uno sprovveduto consenso verso i contenuti più subliminali della comunicazione dei portatori di interesse, locali o globali che siano. All’altro estremo, prosciugherebbe provvidenzialmente le radici dei peggiori fenomeni di irrazionalità, del tipo dei terrapiattisti; i cui comportamenti, al limite del proditorio compiacimento, vanno ormai tristemente assumendo un carattere di consolatorio inconcludente delirio di onnipotenza dei perdenti.
Forse solo la sociologia, aiutandoci a disvelare trame e imposture di predatori d’ogni risma, potrà permettere, a quella ingegneria che ha il volto umano, di reintegrarsi nella sua primigenia missione del fare bene e sostenibile cui aspirano le nuove generazioni.
*Ordinario di Fisica Tecnica Ambientale, Dipartimento di Ingegneria dell’Impresa, Università Tor Vergata di Roma