GREEN DEAL E RECOVERY FUND
Incuriositi dalle analisi realistiche e impietose del presidente di Nomisma Energia sul Sole 24 Ore circa gli obiettivi e i criteri dei principali programmi europei, gli abbiamo chiesto un approfondimento. Ma il professor Tabarelli non ci da soddisfazione e sembra dare per scontato che non esista alternativa fra gli stereotipi europei che affidano la decarbonizzazione alla moltiplicazione di pale eoliche e la disinvolta crescita delle economie Usa e Asia.
Ragioni per chiamarlo storico il 2021 ne avrà parecchie, ma la spesa dell’UE con il Recovery Fund sarà una delle più meritevoli. Con 750 miliardi di €uro, di cui 208 all’Italia, la fetta più generosa, sarà lo strumento, appunto storico, per uscire dalla crisi, questa gravemente storica, causata dalla pandemia da Covid-2019.
Storico è anche l’impegno che la Commissione si prende sul cambiamento climatico e sulla sostenibilità, in quanto, nelle linee guida approvate il 17 settembre 2020, indica che ogni Piano nazionale dovrà essere dedicato per almeno il 37% a spese collegate al clima. Ancora prima della digitalizzazione, l’altro obiettivo dominante, il verde è ciò che di fatto guiderà la Commissione nell’accettazione dei piani e pertanto nel rilascio dei tanto desiderati, e necessari, soldi.
Per l’Italia, il 37% dei 208 miliardi potenziali, ma non certi, equivale a circa 80 miliardi che dovranno essere destinati a politiche climatiche. Per dare un ordine di grandezza, l’Italia sulle politiche verdi ha dato, negli ultimi 10 anni, in media 12 miliardi di €uro alle fonti rinnovabili, soprattutto quelle intermittenti, come sussidio per coprire i maggiori costi e dare garanzie di ricavo agli investitori. Si tratta di un generoso meccanismo, attivato fra il 2008 e il 2012, che alla fine del periodo di incentivazione, destinato a durare 20 anni, avrà elargito circa 200 miliardi di €.
Questa sulle fonti rinnovabili è stata l’azione più importante delle politiche energetiche dell’Italia verso la decarbonizzazione, ma proprio il venir meno degli abbondanti incentivi, dopo il 2012, ha quasi bloccato la loro crescita, nonostante il contestuale forte decremento dei costi di investimento. Ora, la nuova ondata di finanziamenti che si intravede dall’Europa accende un barlume di speranza per far ripartire il settore e gli investimenti. Che ve ne sia bisogna è ovvio, visto che il ritmo di crescita annuale della capacità è un decimo di quello che servirebbe per raggiungere gli obiettivi al 2030 del 30% di contributo delle rinnovabili sui consumi finali contro l’attuale 18%.
L’Italia può vantare molta esperienza sulla questione delle fonti rinnovabili, perché, dopo la Germania, è il paese che più si è speso, e che più ha speso, a loro favore ed è anche quello che sta incontrando le maggiori difficoltà ad andare avanti, e le ragioni, non sono di carattere finanziario. L’ostilità delle autorità locali e delle popolazioni è diventato il principale impedimento alla realizzazione di nuovi parchi fotovoltaici o di nuove pale eoliche. Una modifica del titolo quinto della Costituzione, togliendo potere alle regioni in tema di energia, sarebbe la via più semplice, invertendo quanto fatto frettolosamente nel 2001. Ma si sa che sulle riforme costituzionali la politica trova una montagna invalicabile.
Altrettanto ricca è l’esperienza dellebioenergie, anche questa non proprio positiva, perché 20 anni fa erano ritenute quelle che più delle altre potevano garantire l’abbandono dei fossili e, in effetti, sono quelle che hanno consentito la crescita maggiore del totale delle rinnovabili. Tuttavia, guardando nel dettaglio, il balzo maggiore è stato ottenuto da una maggiore contabilizzazione della legna, il combustibile rurale, quasi povero, che sta creando, assieme al pellet, molti problemi di inquinamento da fumo, più tecnicamente da emissioni di particolato fine. Le biomasse solide e liquide per la produzione di elettricità, dopo un iniziale avvio positivo intorno al 2010, si sono arrestate sia per problemi di autorizzazioni causati da timori circa le emissioni di particolato, sia per il conflitto con le coltivazioni tradizionali destinate all’alimentazione. Quest’ultimo punto è quello che ha bloccato il decollo dei biocarburanti di prima generazione nei trasporti, il settore ove il dominio dei fossili, del petrolio, è di fatto incontrastato. L’esperienza degli ultimi decenni ha dimostrato che sono sempre materie prime alimentari quelle che consentono di arrivare a volumi e costi tali da competere con i derivati del petrolio, benzina e gasolio, nonostante questi siano supertassati. Nei prossimi anni i biocarburanti di seconda generazione, scarti alimentari o liquidi da coltivazioni non alimentari, non potranno fare meglio, perché i volumi e i costi sono troppo lontani da quelli dei fossili.
Insistere sui problemi italiani, riscontrabili anche, magra consolazione, in Germania, è necessario perché la stessa Commissione, nelle linee guida, richiede che si faccia tesoro dell’esperienza attuale e passata per rendere le politiche efficaci e per costruire un quadro macroeconomico più stabile. E’ proprio su questo punto che risulta chiara la scarsa concretezza e le contraddizioni di questo enorme, di nuovo storico, sforzo di politica economica. La transizione verde è molto facile da annunciare, ma difficile da implementare in azioni concrete.
Il rischio, ormai certezza, è che l’Europa destini enormi risorse finanziarie verso la transizione verde con risultati discutibili dal punto di vista climatico e ambientale e allontanando gli altri obiettivi, quelli della produttività, della giustizia e del rafforzamento macroeconomico. Questi ultimi si misurano nel contesto globale, in particolare verso i nostri concorrenti USA e Asia che, meno ambiziosi sul clima, sono più concreti nelle loro politiche economiche a beneficio delle loro industrie.
Via gli Sciamani dell'eolico dai Palazzi del Potere
Sono rimasto senza parole dopo la lettura di questo articolo del Professor Tabarelli. Ben altro mi sarei atteso. Ben altri argomenti e soprattutto ben altro nerbo. A maggior ragione, sono rimasto sconcertato avendolo di recente pubblicamente lodato, se non altro a causa dell'ignavia dei suoi colleghi, per alcune sue posizioni poco conformistiche, ancorchè espresse con una decina d'anni di ritardo, rispetto alle facilonerie mainstream della "transizione energetica". In questi ultimissimi mesi, le sue tesi critiche erano apparse non solo nel citato articolo sul Sole 24 Ore, ma anche in altri articoli sul Messaggero, il Mattino ed il Quotidiano del Sud.
Questo suo articolo sull'Astrolabio, invece, avrebbe potuto essere scritto da chi recentemente ha presentato le pale eoliche, che presto ricopriranno il fu Bel Paese, come le nuove cattedrali ed ha, nel contempo, insolentito con un puerile giochino di parole gli Amici della Terra, colpevoli di scarsa deferenza verso il valore salvifico delle Fer non programmabili e, per ciò stesso, rei di eresia ambientalista impenitente ed ostinata.
Pensavamo che il Professor Tabarelli si fosse reso conto che il gioco della rincorsa senza fine di "asticelle" sempre crescenti, finanziate da stanziamenti pubblici sempre maggiori, a favore di pale e pannelli iper-sussidiati fosse definitivamente sfuggito di mano con l'avvento della "Piccola Greta" - e della susseguente proclamazione dell' "European Green New Deal" - e rischiasse di produrre disastri epocali. Finora in Italia, come fatto più volte notare da Tabarelli stesso, queste politiche sgangherate sono state in grado di fare impegnare in pochi anni oltre 200 miliardi degli utenti italiani dell'elettricità (l'ordine di grandezza del Recovery Fund di cui tanto si parla e che dovrebbe permettere di rivoltare come un guanto l'Italia, tanto per intenderci) per ottenere una ridicola percentuale di energia elettrica inutile, se non dannosa, perchè non programmabile nè accumulabile; ed al contempo hanno contribuito a fare aumentare di oltre il 50%, da quando sono state avviate, le emissioni globali di CO2, a causa dell'ormai conclamato fenomeno del carbon leakage.
Ebbene: ci eravamo sbagliati. La colpa di tutti i mali, abbiamo appreso stupefatti, è... dei comitati di cittadini, costituitisi a loro spese (e che spese!) per impedire gli assurdi sfregi dell'eolico ciclopico e delle distese sterminate di fotovoltaico inferti al territorio patrio. E del titolo quinto della Costituzione (!), divenuto, evidentemente, troppo prono ai principi della sussidiarietà e, in senso lato, della democrazia rappresentativa. Leggiamo infatti:
"L’ostilità delle autorità locali e delle popolazioni è diventato il principale impedimento alla realizzazione di nuovi parchi fotovoltaici o di nuove pale eoliche. Una modifica del titolo quinto della Costituzione, togliendo potere alle regioni in tema di energia, sarebbe la via più semplice, invertendo quanto fatto frettolosamente nel 2001".
Lasciamo, per favore, questi argomenti ad altri. Dobbiamo piuttosto scacciare gli sciamani che si sono introdotti, aizzati per basso interesse dagli stessi governanti, nei Palazzi italiani ed europei del Potere. Gli sciamani che vogliono impedire i cambiamenti climatici globali piantando totem alti centinaia di metri sui crinali italiani, così come gli indigeni piantavano i Moai sull'isola di Pasqua. Abbandonando la soluzione di problemi ultra-complessi alla peggiore retorica green, all'emotività ed all'infantilismo, gli europei faranno la stessa fine di quei polinesiani. I termini del problema vanno ricondotti ad argomenti razionali, onde evitare non solo la temuta catastrofe climatica ma la ben più concreta definitiva deindustrializzazione del Paese e la catastrofe umanitaria, di dimensioni non greche ma venezuelane, che si sta profilando. Se non ora, quando? Se non dagli esperti di economia e di energetica, da chi altri?
In caso di ulteriori inerzie, il giudizio della Storia, verso di loro, sarà impietoso.