INVECE DI UNA RAZIONALE TASSAZIONE DEL CARBONIO
È ormai imminente il riconoscimento alla Cina dello status di economia di mercato. Oltre a una serie di vantaggi inevitabilmente unilaterali che ciò comporterà per il colosso asiatico, va considerato il “dumping ambientale”, il fatto cioè che la Cina produce al di fuori di qualsiasi limitazione delle emissioni della CO2, esportando poi verso i paesi dell’Unione europea che quelle limitazioni si sono invece dati, pagandone gli oneri e trovandosi inoltre gli ingenti quantitativi di CO2 equivalente inclusa nei beni importati. Questo meccanismo si traduce una sorta di indebito “Piano Marshall” a favore di quei paesi – Cina in testa – che con la loro politica si sono meritati l’ironico appellativo di “paradisi ambientali”. Lo strumento per ristabilire condizioni di equa competitività nel rispetto delle regole del WTO sarebbe l’introduzione di un costo amministrato della CO2 percentualizzato sull’IVA, che costituirebbe inoltre un potente incentivo verso l’efficienza e la riduzione delle emissioni.
La Commissione europea ha lanciato una consultazione sull’opportunità di introdurre nuovi criteri anti-dumping in vista del riconoscimento alla Cina dello status di “economia di mercato”. Riconoscimento che – come risulta dalle premesse al testo della Consultazione oltre che dal suo titolo(1) – avverrà nel dicembre 2016 in forza degli accordi stipulati nel 2001 al momento dell’ammissione della Cina nel WTO.
Purtroppo a quindici anni di distanza, a dispetto degli accordi allora stipulati con improvvida leggerezza, “Cina economia di mercato” rimane un ossimoro.
Nelle relazioni economiche internazionali la Cina continua a perseguire un’abile politica opportunista che consiste nello sfruttare a fondo i vantaggi e le aperture commerciali che le derivano dall’essere stata accolta a far parte di organismi multilaterali “occidentali” quali il WTO, il FMI, la Banca Mondiale, ma nel non rispettare e regole di “governance” che tali organismi perseguono.
La consultazione si riferisce esclusivamente al dumping commerciale e agli aiuti di stato specifici quali sono previsti e normati dal WTO. Ma i comportamenti opportunistici della Cina che “fanno a pugni” con l’idea stessa di economia di mercato sono molteplici e di ben più ampia portata:
- l’ingerenza pervasiva dello Stato, delle Amministrazioni locali, delle Forze Armate e delle migliaia di SOEs (State Owned Enterprises) in tutti i settori nell’economia, che da sola basta a rendere ridicola la presunzione di “economia di mercato”;
- il “dumping sociale” insito nel modello socio-economico cinese, che non prevede neppure le più elementari previdenze di uno Stato sociale moderno, come pensioni e sanità;
- il mancato rispetto della proprietà intellettuale;
- le norme restrittive ed i condizionamenti cui sono sottoposte le imprese estere che investono in Cina;
- la mancanza di reciprocità nell’accesso ai pubblici appalti;
- l’inesistenza di regole anti corruzione all’estero, adottate da tutti i Paesi OCSE, Italia compresa;
- la concorrenza finanziaria sui mercati terzi in contrasto con le regole OCSE sugli aiuti allo sviluppo ed i crediti all’esportazione;
per non menzionare la diatriba ricorrente sulla sottovalutazione dello yuan.
Il dibattito sull’argomento è molto attuale. In Italia è stato acuito dalla crisi di settori rilevanti come quelli dell’acciaio e dell’alluminio. L’Astrolabio se ne è fatto interprete con l’articolo “Cina d’acciaio, Europa di burro”.
Nell’ampio e vivace dibattito che si è aperto è stato tuttavia alquanto trascurato un aspetto che merita essere approfondito: il “dumping ambientale” del quale la Cina è il principale, anche se non l’unico, protagonista.
Il fatto di essere un “paradiso ambientale” (inteso, ovviamente, nel senso perverso del termine attribuito ai “paradisi fiscali”) ha contribuito e contribuisce fortemente allo sviluppo economico della Cina, basato sulla compressione dei consumi interni e sulle esportazioni, anche se comporta un prezzo pesante in termini ambientali, sia locali che globali.
I media evidenziano ripetutamene le gravi conseguenze locali, mentre quelle globali, che non si traducono in “immagini dell’orrore” immediatamente pubblicabili e che non sono facili da quantificare, non hanno invece ricevuto adeguata attenzione.
Una misura parziale del danno ambientale globale è fornita dalle stime del cosiddetto “carbon leakage”, la migrazione della produzione di emissioni di CO2 equivalente dalle aree geografiche e dagli Stati che, come la UE e i suoi Stati membri, si sono dati obiettivi di riduzione vincolanti e assunti i relativi oneri economici verso i “paradisi ambientali”, quegli Stati che non si sono ancora dati limiti ed oneri. Questi ultimi sono la larga maggioranza ed emettono oltre il 60% del totale delle emissioni di gas a effetto serra.
Il rischio di “carbon leakage” era già presente agli estensori del Protocollo di Kyoto, definito nel 1997, ed è stato in seguito studiato in dettaglio. La Commissione europea, per il periodo 2015 -2019, ha individuato ben 175 diversi comparti manifatturieri suscettibili di “leakage”, cioè di trasferimento delle produzioni dai suoi Stati membri verso Stati esenti da particolari oneri ambientali, e predisposto alcune misure di protezione sia dirette (permessi di emissione gratuiti) che indirette (in alcuni casi rimborso dei costi ETS trasferiti sui prezzi dell’energia elettrica).
Quantificare il “leakage” non è agevole. Le emissioni di CO2 equivalente dei diversi Stati sono state stimate anche se non sono del tutto attendibili. Ad esempio, di recente i dati ufficiali di consumo di carbone nella Cina sono stati aumentati del 17% rispetto alle cifre anteriori, un volume che si traduce in circa 1 miliardo di tonnellate di CO2 addizionali, pari a quasi il 30% delle emissioni della intera UE.
Quando, poi, dalle stime delle emissioni territoriali si passa alle “rotte della CO2”, cioè alla quantificazione, tutt’altro che facile, dei trasferimenti tra Stati e aree geografiche della CO2 equivalente inclusa nei beni oggetto di commercio internazionale, i dati disponibili sono parziali e approssimativi.
Si tratta, tuttavia, di quantità ingenti. La rivista “The Economist” ha recentemente pubblicato il grafico che si riporta, basato su dati del Prof. Michael Grubb, noto esperto della materia docente allo University College London, dal quale si evince che nel 2014 nell’insieme di quindici Stati membri della UE la CO2 “importata” coi beni era pari a circa un quarto della CO2 prodotta internamente. Considerando che il settore nella UE manifatturiero è responsabile, direttamente e indirettamente, di circa il 30% delle emissioni complessive, si tratta di un dato assolutamente allarmante.
Allarmante in primo luogo perché, se confermato, revocherebbe in dubbio l’efficacia a livello globale delle politiche di riduzione dei gas a effetto serra della UE, che nel 2014 ha prodotto circa il 9.5% delle emissioni mondiali(2). Politiche che hanno introdotto strumenti farraginosi, proni e frodi e inefficaci come lo ETS (European Trading System) nonché ingenti oneri a carico dei consumatori europei. Si pensi solo ai 13,4 miliardi di euro netti l’anno(3) prelevati con le bollette dai consumatori italiani di elettricità per finanziare i sussidi alle rinnovabili.
Ma allarmante anche perché significherebbe che, di fatto, la UE ha in atto un autentico “Piano Marshall” in favore dei settori manifatturieri dei “paradisi ambientali” a tutto discapito del proprio. Quindi del suo PIL e della sua occupazione, oltre che dell’ambiente globale.
A riprova, lo stesso grafico evidenzia come in Cina la produzione di CO2, pur sottostimata come sopra indicato, superi il consumo interno, mentre negli USA – che diversamente dalla UE non si sono proposti l’ambizioso obiettivo di “leading by example” insito nella nota Direttiva europea 20-20-20 – la quota di CO2 importata sul totale consumato sia molto più contenuta.
Se le considerazioni anzi svolte non sono infondate – e senza dimenticare che la riduzione dei gas a effetto serra è solo uno dei molteplici aspetti della protezione dell’ambiente - l’inevitabile quanto assurdo riconoscimento alla Cina dello status di economia di mercato e le sue conseguenze impongono ai decisori politici europei una riflessione che va ben oltre il necessario rafforzamento delle misure di difesa consentite nel limitato ambito degli accordi WTO e affronti i molti temi anzi accennati.
In particolare appare chiaro, in ultima istanza, che le soluzioni adottate per il contenimento delle emissioni a livello europeo non riconducono a una limitazione complessiva globale e che non è sufficiente limitare un emettitore se poi questo continua ad essere consumatore di beni importati e della CO2 associata a tali beni; rappresentano invece uno spostamento delle emissioni industriali verso Paesi che non adottano norme ambientali vincolanti.
Una volta preso atto di questa ovvietà, non si può non essere condotti all’altrettanto lapalissiana conseguenza che solo considerando la CO2 contenuta nei beni e valorizzandola si riequilibra il campo da gioco industriale, almeno sotto l’aspetto ambientale.
L’UE è una madre assai poco comprensiva verso le proprie industrie, ma anche – ritenendo che non sia suo compito educarli se non, utopisticamente, “by example” – assai lassista nei confronti delle altre. Tutte hanno accoglienza nel suo mercato.
La valorizzazione della CO2 nei beni importati non può essere fatta alla frontiera perché le regole del WTO non lo consentono (salvo forse attraverso tortuosi e fragili percorsi interpretativi). Solo con un costo amministrato della CO2(4), percentualizzato sull’IVA, si ristabilirebbe, stante la maggiore efficienza energetica europea, un’equa competitività nei costi energetici industriali. Inoltre l’armonizzazione della concorrenza per l’accesso al primo mercato mondiale, quello della UE, potrebbe essere un modo per creare, grazie ad un preciso interesse commerciale, uno stimolo all’efficienza e alla riduzione delle emissioni con ricadute ambientali più rapide di qualunque accordo globale, incentivando ricerca ed investimenti in tecnologie “low carbon” sia in ambito UE che, soprattutto, extra-UE.
Questo approccio – anche se adottato uniteralmente dalla UE – non violerebbe le norme WTO, a patto di consentire ai produttori extra UE di poter dimostrare il proprio effettivo mix di produzione. Se rispettassero i parametri europei (i benchmark già esistenti) sarebbero esenti da prelievi compensativi delle maggiori emissioni.
1) “Public online consultation concerning the possible change in the methodology to establish dumping in trade defence investigations concerning the People’s Republic of China”
2) “Trends in global EU emissions” 2015
3) GSE “Rapporto attività 2014”
Avv. Agime Gerbeti in “CO2 nei beni e competitività industriale europea” e l’Ing. Tullio Fanelli in numerosi interventi