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2024-10-12 17:30

Guida alla Conferenza Onu di Parigi sui cambiamenti climatici

QUEL CHE C’È DA SAPERE

 

Il 30 novembre, a Parigi, si apre la XXI Conferenza delle Parti (COP 21) della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC), che si concluderà l’11 dicembre. Obiettivo della Conferenza è quello di contenere l’aumento della temperatura globale entro i 2°C, rispetto al periodo pre-industriale, partendo dallo stato di fatto attuale, che registra un aumento di 0,8°C. Lo strumento scelto è quello di un accordo per la riduzione delle emissioni a effetto serra. 169 paesi su 196 (i 28 dell’Ue contano uno) hanno presentato i loro piani nazionali di riduzione.

Secondo le intenzioni dell’UFCCC, seguita dall’Unione europea, l’accordo dovrebbe avere carattere universale e vincolante ma quest’obiettivo si è allontanato con il passare dei mesi, sino a che l’11 novembre il Segretario di Stato Usa, John Kerry, ha detto in modo chiaro, in un’intervista al Financial Times, che a Parigi non ci sarà alcun accordo con valore di Trattato e che non ci saranno obiettivi di riduzione giuridicamente vincolati, come nel Protocollo di Kyoto. Il Guardian riferisce che secondo il ministro degli Esteri francese, Laurent Fabius, su questo punto Kerry è “confuso”, mentre il portavoce del commissario europeo per il Clima, Miguel Arias Cañete, ha ripetuto che “l’accordo di Parigi deve essere un accordo internazionale giuridicamente vincolante. Il titolo dell’accordo deve ancora essere deciso ma questo non influenzerà la sua forma giuridicamente vincolante”. Tuttavia, un accordo di tal genere metterebbe l’amministrazione Obama nella condizione di dover passare dal Congresso, a maggioranza repubblicana, con il rischio di un voto negativo, come già avvenuto con il Protocollo di Kyoto. Su questo punto si troverà un compromesso terminologico ma la sostanza l’ha già chiarita il nostro ministro dell’Ambiente, Gian Luca Galletti, che ha detto: “Se per vincolante si intende un accordo con un sistema di sanzioni sulla scia di quanto accade in Europa, non credo che ci sarà. Ma noi lo chiederemo. Chiederemo che a Parigi ci sia qualcosa di simile a quello che c’è in Europa”. E in effetti l’Unione europea rischia di rimanere la sola ad aver dato, al proprio interno, natura vincolante agli impegni per la riduzione delle emissioni.

 

La trattativa resta aperta e questo è proprio quello che si voleva evitare dai fautori dell’accordo. Il 24 settembre, nel corso di un’audizione davanti alle commissioni riunite esteri, ambiente, attività produttive e agricoltura della Camera dei deputati, il nostro ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, aveva detto che a Parigi non si sarebbe potuto fare come a Copenaghen nel 2009, in cui ci fu l’illusione che un accordo potesse essere trovato durante la Conferenza. A Parigi l’accordo avrebbe dovuto essere trovato prima del suo inizio. E invece, l’illusione è ancora quella. Si arriva a Parigi senza alcun accordo e il portavoce del commissario europeo per il Clima ha detto che si cercherà di raggiungerlo negli ultimi quattro giorni della Conferenza: “A Parigi, i colloqui a livello politico inizieranno il 7 dicembre e quindi abbiamo ancora un po’ di tempo per risolvere la questione” sulla natura giuridicamente vincolante o meno dell’accordo, ha detto il portavoce di Cañete. Del resto, la rappresentante dell’Onu per il clima, Christiana Figueres, dopo le contestazioni ricevute dal governo australiano in maggio, aveva detto sin da allora di prevedere che l’accordo di Parigi avrebbe cercato di favorire la crescita economica, puntando su azioni d’incoraggiamento alla riduzione dei gas a effetto serra, piuttosto che sulla punizione di chi non rispetta gli impegni. Un netto cambiamento rispetto al Protocollo di Kyoto che prevedeva sanzioni mai applicate, anche quando Giappone, Russia e Canada decisero di uscirne.

 

I punti aperti – Per cercare di facilitare un accordo, in settembre i due co-presidenti della Convenzione Quadro dell’Onu sul Cambiamento Climatico, Ahmed Djoghlaf e Dan Reifsnyder, hanno presentato un nuovo documento per i negoziati finali, più snello di quello precedente, 20 pagine contro 89, dove i punti di intesa ancora da definire sono stati sostituiti da numerose parentesi quadre, molte delle quali riguardanti la scelta tra il verbo “dovranno” e quello “dovrebbero”.

 

I punti centrali della trattativa sono due. Il primo è la proposta di una revisione quinquennale degli impegni di riduzione delle emissioni presentati dai vari paesi, per indirizzarsi verso azioni più incisive. Una revisione che alcune nazioni vorrebbero fosse decennale o che riguardasse solo i paesi ricchi. 

Il secondo punto è la costituzione di un Fondo verde per il clima da 100 miliardi di dollari l’anno a partire dal 2020, per aiutare i paesi in via di sviluppo a investire nella riduzione delle emissioni di CO2 e per la mitigazione degli effetti dei cambiamenti climatici.

Stimare a quanto si è sinora arrivati, rispetto ai 100 miliardi di dollari previsti, è uno “sforzo tecnicamente complesso”, si legge in un documento presentato dall’Ocse il 9 ottobre, perché “ci sono significativi rischi di doppio conteggio e di attribuire finanziamenti per il clima in modo inappropriato, perché i flussi finanziari risultano spesso provenire da diversi paesi o istituzioni che lavorano in collaborazione per raggiungere un determinato obiettivo”. La situazione diventa ancora più complessa quando si considerano i finanziamenti privati mobilizzati da interventi pubblici. Un’incertezza che incrina la fiducia tra paesi ricchi e poveri. L’analisi dell’Ocse stima in 61,8 miliardi di dollari quanto raccolto sino alla fine del 2014, ma i paesi in via di sviluppo affermano che questa stima non ha alcun valore legale e che le nazioni povere non sono state consultate. Molto diversa la cifra fornita in settembre dal ministro Gentiloni, secondo il quale dei 100 miliardi di dollari di questo Fondo verde per il clima, a cui l’Italia contribuisce con 250 milioni in cinque anni, ponendosi in tal modo “tra i principali contributori”, sinora ne sono stati messi sul piatto solo dieci.

 

Come finirà? E’ difficile pensare che 195 paesi più l’Unione europea si riuniscano a Parigi, in stato di emergenza, per celebrare un fallimento. In qualche modo si troverà il modo di presentare il risultato come un successo, anche se, come scrive Danilo Taino su Sette, il supplemento del Corriere della Sera del 21 novembre, “è improbabile che lo sforzo enorme annunciato e l’importanza data alla conferenza di Parigi per il futuro del mondo siano destinati ad avere risultati di grande portata. Gli impegni presi dai governi sulla limitazione delle emissioni sono costosi, avranno un impatto minimo e anche questo scarso risultato sarà probabilmente vanificato dalla tendenza a non rispettare gli impegni (per mille ragioni) da parte di molti. Per limitare l’effetto serra sarebbe probabilmente una buona idea non imporre tetti alle emissioni ma investire seriamente nella ricerca di tecnologie pulite per renderle efficienti e a basso costo. Costerebbe meno, darebbe risultati molto migliori e non impedirebbe ai poveri del mondo di consumare energia a basso costo. Purtroppo si andrà avanti sotto il segno di Kyoto”.