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2024-03-28 19:53

Tempi Duri per il Fracking

TRA CROLLO DEI PREZZI E PROBLEMI AMBIENTALI

di: 
Roberto Mezzanotte

L’estrazione dello shale oil e dello shale gas è una pratica controversa: può ridurre la dipendenza dalle importazioni di combustibili convenzionali, ma si accompagna a questioni ambientali non risolte, alle quali si aggiunge ora (ma solo in termini di consapevolezza) la produzione di rifiuti radioattivi. Il tutto, in una fase in cui i prezzi del greggio la rendono poco competitiva

Il crollo del prezzo del petrolio che si è registrato a partire dall’estate scorsa, riducendo la rimuneratività del prodotto da shale, ha fatto emergere un nuovo problema ambientale legato alla pratica del fracking: la produzione, e la conseguente necessità di gestire, enormi quantità di rifiuti radioattivi.

La natura del problema, per vero, è tutt’altro che nuova. È infatti noto che tutte le attività estrattive possono portare alla luce la radioattività naturale presente nella crosta terrestre (l’uranio e il torio e i radionuclidi delle rispettive catene di decadimento, tra i quali i vari isotopi del radio) e che nel ciclo delle lavorazioni minerarie si possono determinare concentrazioni di radioattività tali da costituire un problema di radioprotezione anche rilevante. Per quanto in particolare attiene al petrolio ed al gas, la legislazione italiana già da tempo, con il D.lgs. 241/2000, ha incluso la loro estrazione e la loro raffinazione tra le attività soggette a specifici provvedimenti di radioprotezione, in relazione alla presenza di concentrazioni di radioattività naturale nei fanghi e nelle incrostazioni che si formano all’interno di tubazioni e di serbatoi.

Nel fracking questo fenomeno è fortemente accentuato dall’uso e dal successivo trattamento delle ingenti quantità di acqua che quella tecnica di estrazione comporta. Il fracking consiste infatti nell’iniettare acqua in pressione all’interno dei pozzi precedentemente scavati, sino a profondità di alcune migliaia di metri, in formazioni geologiche caratterizzate da una permeabilità bassa, tale da non consentire, con adeguata economicità, l’estrazione degli idrocarburi in esse presenti utilizzando le tecniche convenzionali. La pressione dell’acqua provoca invece la fratturazione della roccia, favorendo la fuoriuscita del petrolio o del gas.

Questa tecnica, nell’ultimo decennio, si è andata diffondendo in diversi paesi, e soprattutto negli Stati Uniti, dove esistono formazioni geologiche estesissime dalle quali sono estraibili lo shale gas e lo shale oil, come ad esempio la formazione Marcellus, di età paleozoica, tanto grande da interessare il sottosuolo di diversi stati, dalla West Virginia all’Ohio, alla Pennsylvania, al Maryland, fino allo stato di New York, e la formazione Bakken, anch’essa paleozoica, che si estende tra gli Stati uniti (North Dakota e Montana) e il Canada.

L’estrazione di questi combustibili “non convenzionali” ha rivoluzionato l’economia di diversi stati, come il citato North Dakota, che quasi all’improvviso si sono scoperti essere stati petroliferi, ed ha fortemente ridotto la dipendenza energetica degli USA dalle forniture estere, legate come si sa a paesi di incerta stabilità politica, tanto che i produttori nazionali stanno addirittura spingendo affinché venga superato il divieto di esportazione di greggio che vige negli Stati Uniti sin dai tempi della crisi petrolifera dei primi anni ’70.

Ma, opportunamente parafrasato, quel che si dice per l’oro (non tutto quel che riluce …) vale anche per l’oro nero, o quanto meno per quello estratto con il fracking. Diversi sono infatti gli addebiti di natura ambientale che contro quella pratica vengono sollevati e che la hanno resa oggetto di contestazioni anche forti. Veri o meno che siano, quegli addebiti hanno fatto sì che in diversi paesi, in Europa, ma anche in qualcuno degli Stati Uniti, il fracking non sia consentito.

C’è la questione della microsismicità che viene indotta nelle aree intorno ai pozzi, con terremoti di livello strumentale o poco più (circa fino al grado 3 della scala Richter), ma c’è chi attribuisce a una instabilità causata dal fracking il verificarsi, in quelle aree, di terremoti di magnitudo anche maggiore (oltre il livello 4), come effetto delle onde sismiche prodotte da terremoti di forte intensità che avvengano anche a grandi distanze, e c’è anche chi vede più direttamente nel fracking la causa di innesco di terremoti ancor più rilevanti, come quello di magnitudo 5,7 che si verificò il 5 novembre 2011a Prague, in Oklahoma, in un’area dove sono presenti, e tuttora in esercizio, pozzi di shale oil.

C’è poi la questione dell’inevitabile dispersione di metano nell’atmosfera: a parità di quantità, il metano ha caratteristiche di gas serra nettamente superiori a quelle della stessa CO2, anche se l’estrazione di shale gas non è ovviamente l’unica causa della sua presenza nell’atmosfera, né la più rilevante.

Ma gli addebiti maggiori nei confronti del fracking si incentrano, per aspetti diversi, intorno all’acqua. Innanzi tutto, come si è già ricordato, questa tecnica comporta l’uso di grandi quantitativi di acqua: l’apertura di un pozzo ne richiede circa 25 mila metri cubi. C’è peraltro chi osserva che anche altri modi di produzione di fonti di energia comportano il consumo di acqua, che andrebbe pertanto rapportato all’unità di energia prodotta. In tal senso, si dice, i biocombustibili danno luogo a un consumo ancora maggiore. Se questo è vero, va però anche detto che il confronto con una fonte di energia non esente a sua volta da contestazioni non è il modo migliore per sostenere la causa del fracking, e vi è comunque il fatto che in aree già di per sé non particolarmente ricche di acqua, come alcune nel Texas, l’uso dell’acqua per la fratturazione delle rocce, unito a stagioni di particolare siccità, ha lasciato i rubinetti a secco (è quanto è avvenuto ad esempio alla comunità texana di Barnhart).

Vi sono poi i rischi di inquinamento delle falde acquifere. Negli Stati Uniti vi è circa mezzo milione di pozzi per l’estrazione di metano, molti dei quali penetrano in esse. L’inquinamento delle falde può avvenire da parte delle diverse sostanze chimiche con le quali si additivano le acque che vengono iniettate a pressione nei pozzi. Inoltre, il metano, liberato in profondità, può raccogliersi in falde sfruttate per usi potabili e arrivare a produrre effetti come quello mostrato nella figura qui riportata.

Fonte: National Geographic

L’altro problema è rappresentato dalle acque reflue. Tra 4.000 e 8.000 metri cubi di acqua (mediamente un quarto della quantità che è stata pompata nei pozzi) tornano in superficie e debbono essere trattati per eliminare i detriti che portano con sé.

La filtrazione delle acque reflue dà luogo alla produzione di grandi quantità di fanghi, che debbono essere smaltiti in discariche a ciò autorizzate. Ad esempio, nelle discariche della Pennsylvania, nel 2013 sono stati conferiti 1,3 milioni di tonnellate di fanghi, in quelle della West Virginia 721 mila tonnellate. Ed è a questo punto che si innesta il problema della radioattività naturale presente nei fanghi, dove si va a concentrare quella trasportata dall’acqua (per la formazione Marcellus, in un litro di acqua reflua vi possono essere fino a 15.000 pCi, cioè, nelle grandezze del sistema internazionale non utilizzato negli USA, circa 550 Bq. Per avere un’idea dell’ordine di grandezza, il riferimento per le acque di miniera nella legislazione italiana è posto a 1 Bq/l).

Senza enstrare qui nel merito degli aspetti di radioprotezione che questa presenza comporta, si deve osservare che negli Stati Uniti ogni singolo stato ha fissato una propria regola in merito al livello massimo della concentrazione di radioattività con la quale i rifiuti possono essere accettati nelle discariche. Si tratta di livelli estremamente variabili, che vano da 5 pCi/g (0,185 Bq/g) ad alcune migliaia di pCi/g. È inevitabile che in tal modo sia sorta una concorrenza tra le discariche di stati diversi e si sia formata una movimentazione di fanghi radioattivi dagli stati radiologicamente più restrittivi verso quelli più “liberali”. È il caso dei fanghi prodotti nel North Dakota, che, data la severità della regolamentazione – la massima concentrazione ammessa nelle discariche è pari a 5 pCi/g – sono normalmente esportati in altri stati.

Questa movimentazione ha ovviamente un costo, valutato globalmente, per i circa 12.000 pozzi presenti in quello stato, in 120 milioni di dollari all’anno, una spesa che, comprensibilmente, ai produttori farebbe sempre piacere comunque risparmiare, ma che, se dal punto di vista dell’economia complessiva della produzione è stata a lungo del tutto trascurabile, lo sta diventando sempre meno con il prodotto convenzionale ai livelli di prezzo attuali, tra i 50 e i 60 dollari a barile.

La rimuneratività dello shale oil rispetto al prezzo del greggio varia a seconda dell’area di estrazione. Secondo i dati riportati dalla rivista online Bloomberg Business (si veda la figura qui sotto riprodotta), il punto di pareggio per la maggior parte delle aree è compreso tra i cinquanta e gli ottanta dollari a barile. Per lo shale oil estratto dalla formazione Bakken il break-even si colloca intorno ai 73 dollari a barile. Tutto ciò non sembra peraltro aver ancora prodotto effetti in termini di riduzione del numero di pozzi attivi (sebbene, a quanto riferiva la Reuters in una nota del 2 dicembre scorso, in novembre vi è stata la prima battuta di arresto, dal 2007, nel numero di autorizzazioni rilasciate per l’apertura di nuovi pozzi, con un calo del 40% rispetto al precedente mese di ottobre: 4520 contro 7227); è però sufficiente – o quanto meno contribuisce - a spiegare la pressione che i produttori stanno esercitando affinché lo stato del North Dakota riveda la propria regolamentazione, alzando di dieci volte i limiti di accettabilità dei rifiuti in discarica, dagli attuali 5 pCi/g a 50 pCi/g. Va detto che, trattandosi di un limite riferito non a qualsiasi destinazione di materiale contaminato, ma solo al suo conferimento in discarica, il valore proposto di 50 pCi/g (meno di 2 Bq/g) non sarebbe di per sé da considerare, dal punto di vista radioprotezionistico, scandaloso, ma nel clima di controversia che regna intorno al fracking, una decisione di quel genere, se venisse presa, non potrebbe non essere vista, da quanti la avversano, come un’indebita concessione a favore di una tecnologia pericolosa e non suscitare quindi nuove polemiche.

 

Fonte: Bloomberg Business

L’ultima brutta notizia per i produttori di shale oil e di shale gas è venuta dal governatore dello stato di New York, Andrew Cuomo, che nel dicembre scorso ha decretato la messa al bando del fracking dal territorio dello stato, che pure si trova, come detto, su una formazione molto ricca. La decisione, in un senso o nell’altro, era attesa da tempo, ma Cuomo, secondo la versione ufficiale, prima di risolvere la questione ha voluto prendere atto dell’esito delle rivalutazioni dei rischi per la salute e per l’ambiente, fatte dal competente dipartimento dello stato di New York, rivalutazioni contenute in un rapporto pubblicato appunto in dicembre, che hanno portato a concludere con un giudizio secondo il quale i rischi a carico della pratica estrattiva sono oggi troppo elevati.

È difficile tuttavia pensare che Cuomo, per assumere una decisione in una materia che vede così fortemente divisa l’opinione pubblica, non abbia voluto attendere, oltre al giudizio degli esperti, la propria rielezione, avvenuta nel precedente mese di novembre.