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2024-12-04 02:51

Tre paradossi per spiegare all’Europa che in Italia la Green Economy si declina anzitutto sul territorio

di: 
Angelo Spena

Che vuol dire green economy? Economia sostenibile. Che vuol dire sostenibile? Che a lungo termine il degrado – inevitabile, è una legge della termodinamica - dovuto alle attività dell’uomo risulti talmente lento da consentire alle future generazioni di adattarsi, e alla natura di incorporarlo tra gli altri suoi mutamenti.

Qual è in Italia il peggior segno dell’azione dell’uomo occorsa negli ultimi settant’anni (due generazioni)? E’ facile rispondere: basta viaggiare e guardarsi intorno alla ricerca dei residui fazzoletti di verde, nel basso Lazio come nel Nord-est, in Campania come in Lombardia, o constatare il degrado di piccoli e grandi siti archeologici e paesaggistici. Spazi non sfruttati al massimo ormai rimangono solo in aree marginali o dismesse. Cosa c’è di più green della terra, soprattutto nelle condizioni italiane tipiche per clima e geografia? Altro che cappottini per edifici affacciati sul Mediterraneo che li soffocano d’estate, e pannelli fotovoltaici che nel Belpaese arroventano l’aria, e pale eoliche che da noi girano lente, quando girano.

In Italia è anzitutto la terra che la green economy deve difendere e valorizzare. E qui incontriamo il primo paradosso, che mette a nudo le carenze della nostra classe dirigente: la globalizzazione vissuta come un problema, subita con rassegnazione, senza progettualità, anzi come un fattore disabilitante, quando invece può essere la nostra ricchezza, una chance, molto più che per altri paesi.

Green economy? Certo, sul territorio: nell’agroalimentare, nel turismo, nell’agricoltura di qualità, nel paesaggio, nei beni culturali e in una rinnovata industria delle costruzioni. Al di là delle vicissitudini della coraggiosa legge Catania sul consumo di suolo e della congiunturale temperie politica, vale la pena, per gli ingegneri,  per tutti i tecnici dell’ambiente e delle scienze della terra, di approfondire.

 

Territorio e industria delle costruzioni
L’industria delle costruzioni, che in Italia - anche senza considerare i terremoti - a fine 2013 aveva già perso (1) oltre il 21% di occupati rispetto al 2008, avrebbe davanti a sé decenni di sviluppo, non certo per ulteriori nuovi appartamenti (un quarto degli esistenti, dati ISTAT alla mano, sono disabitati) o per abusivismo mascherato o legalizzato, ma per il risanamento delle aree degradate, per le manutenzioni, per le demolizioni (dove necessario) e le ricostruzioni, per la mitigazione del dissesto idrogeologico, per la messa in sicurezza dei monti e del mare. E, soprattutto, per specializzazioni di nicchia di alta e altissima qualità nella valorizzazione del paesaggio, nel restauro del patrimonio edilizio storico, nella conservazione delle aree archeologiche.

Uno degli obiettivi del semestre di presidenza italiana avrebbe dovuto essere un accordo tra gli Stati membri sui cambiamenti climatici, come dichiarato (2) dal nostro ministro dell’Ambiente. Ma è davvero questa la priorità? L’Europa intera continua a rimuovere il drammatico epocale problema di come salvare insieme l’industria delle costruzioni, che costituisce da sola oltre un decimo del suo PIL, e il suo territorio. Continuare a costruire edifici è una perfetta, lapalissiana esemplificazione di ciò che non è sostenibile: può essere ininterrotta nel tempo la produzione di beni di consumo, non quella di beni durevoli. L’edilizia - non sarà politically correct ma bisogna pur dirlo - in economie avanzate e in collettività consolidate, in assenza di crescita demografica, non può che essere un’attività transitoria, direi residuale. Risolve i problemi dei dopoguerra, delle ricostruzioni dopo catastrofi o dell’inurbamento da sviluppo a due cifre; ma, a regime, le va trovata una mission che salvi la sua occupazione e i suoi asset, evitando il continuo consumo di suolo. Per esempio,  indirizzando il know-how edilizio all’estero, verso i paesi emergenti.

In Italia si aggiunge poi il problema della messa in sicurezza del territorio, la cui spesa annua è meno dell’1% degli oltre 45 miliardi (il 3% del nostro PIL) stimati necessari. Secondo dati OCSE (3), tra il 1944 e il 2011, il danno economico cumulato prodotto in Italia dalle calamità naturali ha superato i 245 miliardi di Euro, con una media di circa 3,5 miliardi l’anno, un quarto dei quali imputabile alle calamità idrogeologiche che sono in aumento costante, assoluto e percentuale (due terzi delle frane europee avvengono in Italia). Complessivamente, più di 120 eventi negli ultimi 6 anni, con un costo medio di 1,2 miliardi/anno di danni. E mentre il CRESME invoca un’azione di rilancio degli investimenti basata su lavori e cantieri, che potrebbe portare, con 10 miliardi all’anno per tre anni, 130.000 nuovi occupati, sale dal mondo assicurativo la proposta (4) di una polizza obbligatoria che copra il patrimonio abitativo italiano: “La nuova frontiera della prevenzione: il ruolo del settore assicurativo nelle catastrofi naturali” (5). Invero, un sano partenariato di rischio pubblico-privato dovrebbe rovesciare la logica sottesa, sussidiando lo Stato nella tutela ex-ante, prima di metter su un business ad hoc sugli indennizzi ex-post; e presuppone un impegnativo bilanciamento a lungo termine tra eticità pubblica del dirigismo e profittabilità di vere azioni di prevenzione ambientale. Diversamente, saremmo solo al secondo paradosso: l’assicurazione surrogato della prevenzione, anche per il territorio! Più che geniale sarebbe - alla lettera - catastrofico.

 

Territorio e patrimonio culturale tangibile
Recentemente la nostra Corte dei conti ha invocato la valorizzazione contabile del patrimonio culturale nazionale. Operazione difficile e di incerta efficacia, anche relativa. Ma in qualche modo necessaria: è davvero un paradosso (e siamo al terzo) il fatto che per l’Italia il patrimonio culturale debba comportare sul piano del rating e su quello contabile una doppia penalizzazione: il suo valore nello stato patrimoniale non rileva come asset, e nel conto economico, a fronte di miseri introiti (ma il prezzo dei biglietti d’ingresso in Italia è una penosa storia di autolesionismo), il costo degli interventi pubblici manutentivi dei grandi ambiti ambientali (anche dei siti UNESCO dichiarati patrimonio dell’umanità, dalla laguna di Venezia a Pompei per citare solo i più discussi) rimane nel perimetro del debito pubblico. Il che, oltre che distorsivo, appare improprio sotto il profilo contabile, in quanto assimila maintenance capex a consumi.

Nel rapporto debito/ricchezza, il nostro patrimonio culturale tangibile non aumenta il denominatore, ma accresce il numeratore: i nostri rating sarebbero migliori se non avessimo la nostra storia? L’Europa, purtroppo, non è sensibile. La “tutela e promozione del patrimonio naturale” volonterosamente accennata nel documento italiano citato (6), non è rintracciabile nel promemoria di sintesi comunitario (7), ed è relegata, svogliatamente e senza contenuti, tra le “complementary policies” nel documento esteso (8); quasi fosse una specificità - anzi una anomalia, nell’Europa dei canoni - tutta italiana. Eppure sempre il commissario UE, Hedegaard, a Roma, nel febbraio di quest’anno, aveva aperto al dibattito sugli strumenti attuativi delle politiche climatiche al 2030. All’Europa che si accinge a sostenere uno sforzo finanziario per la green economy, l’Italia nel semestre europeo dovrebbe o avrebbe dovuto anzitutto contestare la sottovalutazione dei problemi del territorio; e, in cambio delle riforme strutturali e di una simmetrica promozione del partenariato pubblico-privato, non solo negoziare modalità e strumenti per la sottrazione di investimenti per i territori dissestati dal debito pubblico (magari in deroga al patto di stabilità, come aveva già proposto il ministro Clini a fine 2012), ma aggiungere anche con determinazione, e a buon diritto, quelli da sostenere per i siti UNESCO patrimonio dell’umanità.

Per perseguire questa strada va inevitabilmente messa in discussione in Europa l’unicità del paradigma aprioristico di una green economy declinata nell’interesse delle solite lobby. La cultura, la dimensione, gli obiettivi dei grandi cluster industriali (di Francia e Germania, ma non solo) che sapientemente ci trascinano a perseguirla, cluster basati su asset immateriali di capitale e di know-how, con mercati garantiti dalle politiche anche nazionali di espansione, di soft power quando non degli armamenti, sono quanto di più lontano dai nostri distretti industriali. Questi sono fondati sulle capacità personali, su tessuti di relazioni e di lavoro sul territorio, che i mercati se li conquistano con la qualità percepita dagli esseri umani, non dalle company o dai dispensatori di rating. Anche nell’industria, per noi italiani, greening e territorio significano ancora questo: il valore aggiunto evocativo del nostro stile di vita nei nostri prodotti nel mondo. Più ingegneri,più tecnici, più artigiani,e meno broker.

NOTE

(1) L. Bellicini, “Senza edilizia non ripartono domanda interna e lavoro”, Il Sole24Ore, 19 febbraio 2014.

(2) MATTM, Comunicato stampa, 18 luglio 2014.

(3) E. Guidoboni, G. Valensise, “L’Italia dei disastri”, Bononia University press, 2014.

(4) “Axa in prima linea contro le catastrofi”, Il Sole24Ore, 20 giugno 2014.

(5) L. Galvagni, “Ania: compagnie pronte a finanziare le imprese”, Il Sole24Ore, 2 luglio 2014.

(6) MATTM, ibidem.

(7) “Memo”, European Commission, January 22, 2014.

(8) “A Policy Framework for Climate and Energy in the Period from 2020 to 2030”, European Commission, January 22, 2014.