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2024-10-04 23:05

Come, Quando e Perché ci Siamo Giocati la Libertà Energetica

IL MERCATO DEL GAS

di: 
Diego Gavagnin

In connessione con i principali eventi storici degli ultimi decenni, l’autore traccia un escursus delle scelte di politica energetica fatte dal nostro Paese nel contesto europeo e ne spiega gli effetti sull’economia e le conseguenze sulla politica e sulla società. Una riflessione che mira ad aumentare la consapevolezza sulle scelte strategiche per l’oggi e il domani.

In Copertina: mappa dei gasdotti in Europa nel febbraio 2022, fonte Sky

 

Per un Paese come l’Italia, che non dispone di sufficienti risorse energetiche proprie,  l’indipendenza energetica coincide con la libertà di poter scegliere ed utilizzare le fonti  disponibili, nelle varie epoche storiche, nella  massima pluralità di fornitori e copertura della domanda. Che siano fossili o rinnovabili - ma sappiamo che sole e vento non arriveranno mai al 100% - il problema è sempre l’ultimo kWh richiesto nella giornata e nell’anno. Abbiamo avuto una stagione di indipendenza, grazie all’idroelettrico fino agli anni ‘50, e quando non fu più disponibile tentammo la strada del nucleare, che però lasciammo in favore del petrolio, nonostante la crisi mondiale del ‘72.

Pensammo anche al gas naturale, soprattutto per produrre l’elettricità, ma andava bene anche come sostituto della benzina, avendone anche una certa quantità in casa, che favorì lo sviluppo delle reti. Vedendo che pure questo non sarebbe stato sufficiente, dovemmo rivolgerci all’estero, dove nel frattempo si sviluppavano grandi giacimenti, a sud, a nord e a nord-est dell’Italia. Legarsi con gasdotti a pochi paesi fu (forse) necessario nello scorso secolo, ma continuare nonostante l’emergere di alternative e dubbi sull’affidabilità dei fornitori è stato un errore che abbiamo pagato duramente, nonostante seri allarmi a metà del primo decennio del nuovo secolo.

Tre anni fa, in questi stessi giorni, la Russia stava perfezionando il piano di aggressione all’Ucraina. Da un lato la pianificazione militare, per la conquista in pochi giorni di Kiev, fallita, dall’altro il ricatto energetico all’Europa per impedirne l’appoggio agli ucraini, fallito anch’esso. Quest’ultimo frustrato soprattutto da un inverno mite e dal GNL, gas naturale liquefatto che viaggia con apposite metaniere via mare tra tutti i continenti. L’accaduto ci dà una lezione che non può essere dimenticata: il prezzo del gas russo era politico, non di mercato. Da ricordare sempre, quando le democrazie trattano con dei dittatori o degli autocrati.

Nel 2019, ultimo anno di riferimento dei consumi di gas prima di covid e guerra, l’Europa dipendeva per quasi il 40% dalla Russia, da cui ha importato circa 180 mld su 500. Il ricatto energetico, o meglio la guerra, aveva due corni: rendere insufficiente l’offerta di gas all’Europa nel momento di maggior necessità e far salire i prezzi del gas che avremmo comunque dovuto comprare dai russi. Come ogni anno, il momento di massimo rischio si colloca tra metà febbraio e inizio marzo, per via della maggiore domanda in inverno e quando gli stoccaggi stagionali sono pressoché esauriti e il gas non ha pressione per risalire dai pozzi. Storicamente anche il periodo di maggiori importazioni dalla Russia, rispetto alla media annuale; di fatto aveva assunto il ruolo di abituale “fornitore di ultima istanza”. Guarda caso, i giorni dell’attacco.

A rafforzare la strategia di Putin, o forse a suggerirgliela, il fatto che per vari imprevisti il prezzo del gas dalla primavera del 2021 era in salita: lite Cina-Australia, che fermò le esportazioni di gas a Pechino e rallentò le estrazioni, siccità in Brasile, che aumentò la sua domanda di GNL e poi quella dell’Europa, per le fermate di centrali nucleari in Francia e poco vento per l’eolico nel Mare del Nord. Questo aumento di prezzo, fisiologico, considerati quattro imprevisti in pochi mesi, permise ai russi di mascherare le proprie strategie di riduzione delle forniture.

Per nostra fortuna negli anni precedenti gli USA erano diventati il maggiore produttore di gas nel mondo ed esportatore di GNL, e i loro rifornimenti hanno dato un contributo fondamentale all’Europa. C’è chi ancora adesso incolpa il “mercato” ma questo con gli aumenti dei prezzi nell’autunno 2021 non c’entra nulla. In condizioni normali, come nel 2019,  il mercato sarebbe stato ben rifornito quando dalla fine dell’estate, smaltiti i consumi per l’aria condizionata, sarebbe aumentate le richieste dell’Europa. Come ogni anno il maggior importatore mondiale entrava nel mercato per il completamento degli stoccaggi in vista dell’inverno. In ogni caso si sapeva molto abbondante la disponibilità di gas russo.

Per anni ci si è interrogati sul perché la politica commerciale di Gazprom, monopolista del gas russo via gasdotto, preferisse sempre le quantità rispetto ai prezzi, e perché insistesse per forniture dirette, senza intermediari contrattuali, soprattutto per le esportazioni a pronti (spot). Era un amo da pesca, cui abbiamo abboccato. Nell’autunno 2022 le necessarie forniture spot di gas russo verso l’Europa erano previste in circa 50 mld mc, aggiuntive rispetto alle forniture dei contratti pluriennali.

Le grandi disponibilità per nuove forniture, vantate dai russi, e l’insistenza per nuovi gasdotti (Nord Stream 1 e 2), garantiti da forniture pluridecennali, servivano a tenere basso il prezzo, per allettarci e anche per spiazzare la diffusione del GNL, americano e non solo, che si affacciava sul mercato dalla fine del primo decennio. Motivo per cui c’era scarsa disponibilità aggiuntiva di GNL per poter fare concorrenza al gas russo. Nel 2014, quando il GNL fece scendere i prezzi anche in Europa, Gazprom rinegoziò al ribasso i propri. Per parecchi anni abbiamo pagato probabilmente il gas meno del suo valore di mercato, ma oltre al disastro del 2022, lo abbiamo scontato anche in termini di efficienza, come dimostra la facilità e rapidità con cui le imprese sono riuscite a ridurre i consumi a parità di attività produttiva quando i prezzi sono impazziti.

 

La guerra dell’energia

Il presidente russo Putin aveva previsto di conquistare rapidamente l’Ucraina, e superare le ovvie proteste europee nel momento in cui avremmo dovuto comunque continuare a comprare il gas da Gazprom mentre le truppe varcavano il confine, per non avere il blocco totale delle nostre economie e servizi sociali. Nel suo disegno, “normalizzata” l’Ucraina, tutto sarebbe andato avanti come prima, così come in tutti gli altri episodi simili precedenti, ad esempio l’invasione della Crimea. C’è da capirlo, in quell’occasione non facemmo nulla.

Le forniture di gas dei contratti pluriennali con la Russia prima e nei giorni successivi di guerra non si sono mai interrotte, e i contratti non scaduti sono ancora in vigore, tanto che in questo momento l’Europa ancora importa da Gazprom e Novatek (GNL) per il 20% dei suoi consumi. Quelle che sono venute meno, da settembre 2021 in poi, sono le forniture spot, indispensabili per completare gli stoccaggi, e avere forniture variabili in funzione delle temperature invernali. Inoltre, non furono riempiti gli stoccaggi che l’operatore russo Gazprom gestiva direttamente (!) in Germania e Austria.

Gli operatori erano abituati ad alzare il telefono e avere subito dai russi il gas che serviva e poteva mancare per l’inverno, invece ebbero risposte vaghe, non fu detto un no esplicito, i funzionari di Gazprom prendevano tempo, e probabilmente non capivano neanche loro il perché di questi ordini superiori. Qualche dirigente di Gazprom, che probabilmente si era illuso di operare in una normale economia di mercato, e provò a protestare, ha fatto una brutta fine. I russi prendevano tempo con scuse di vario tipo (problemi tecnici, propri stoccaggi cui dare la precedenza etc.), rimandavano, promettendo soluzioni che però non arrivavano.

Per gli acquirenti occidentali era inimmaginabile che la Russia volutamente non fornisse il gas aggiuntivo, così si rivolsero ad altri fornitori che per i motivi descritti erano “corti” e questo ha innescato la crescita dei prezzi in tutto il mondo (anche in America) ma soprattutto in Europa. Formalmente Gazprom non aveva responsabilità, non era in torto, perché si trattava di nuovi contratti di breve temine, non erano violati contratti in essere.

Se i russi avessero aperto i rubinetti come al solito, i prezzi sarebbero scesi e tornati ai livelli normali degli anni precedenti. Gli acquirenti europei (e gli Stati) non credettero agli USA che avevano previsto la guerra: era impossibile che Gazprom rinunciasse ai proventi delle vendite extra, e le settimane passavano. I russi invece erano tranquilli, perché avrebbero recuperato quei soldi con i prezzi, del gas e del petrolio, che sarebbero impazziti per tutto il resto del 2022 e oltre, come successo. Sarebbero aumentati anche i pluriennali, che hanno delle formule di indicizzazione.

 

Il fallimento del piano russo

L’Ucraina ha resistito e il piano è fallito, con l’inverno più mite del solito, che ha ridotto la domanda di gas europea, del pronto arrivo del GNL, deviato anche da altre forniture (molti contratti lo prevedono a fronte di penali, che in questo caso erano molto inferiori al prezzo), e della discesa della produzione industriale, tra l’altro non ancora recuperata, in Italia come nell’Europa manifatturiera. In ogni caso il GNL da solo non sarebbe bastato, senza il tradimento del “generale inverno”, che salvò la Russia da Napoleone e dall’ex alleato Hitler.

La Russia avrebbe anche potuto, nel momento dell’attacco, interrompere le forniture dei pluriennali, ma sarebbe caduta la finzione giuridica dell’”operazione speciale”, sarebbe stata guerra esplicita all’Europa. Solo più tardi sono iniziate interruzioni, motivate ai clienti come “forza maggiore”, che stanno portando a numerosi ricorsi ai tribunali internazionali. In ogni caso la reputazione della Russia come partner commerciale è distrutta. La parola “guerra” avrebbe implicato il rispetto delle relative normative internazionali, mentre ancora i russi si permettono impunemente di bombardare ospedali, supermercati, alberghi, scuole.

È di lunga data l’ossessione dei russi per il rispetto delle formalità giuridiche, pensando di salvarsi la coscienza e gli interessi mentre commettono i peggiori crimini. È la storia delle “confessioni” durante le purghe staliniane, o i processi individuali, con tanto di timbro sulle condanne, che precedettero il massacro delle migliaia di ufficiali polacchi quando la Russia era alleata di Hitler. Ma chissà, forse invece c’è un senso: molti, in Europa, non vedono l’ora di ricominciare a comprare il gas russo, e infatti ancora lo fanno.

Ciò che è accaduto dalla fine del 2021 e nel 2022 con code fino ad oggi, è stato l’esito della dipendenza europea e italiana dal gas russo, costruita con pazienza da metà del primo decennio del secolo, dopo la rivoluzione “arancione” in Ucraina con le elezioni del novembre 2004. Eppure, 19 anni fa, nell’imminenza del rinnovo di uno dei contratti pluriennali con la Russia, ci fu qualcuno che non si fidava troppo e che cercò di indirizzare il Governo e l’ENI verso una maggiore diversificazione energetica e pluralità di fonti di approvvigionamento.

Grafico da Trading Economics https://tradingeconomics.com/commodity/eu-natural-gas - TradingEconomics.com 

 

Le alternative c’erano… Il dibattito nel Parlamento italiano

Nell’autunno del 2005 la Commissione attività produttive della Camera, presieduta da Bruno Tabacci (UDC e CCD-CDU) ritenne opportuno avviare una indagine conoscitiva sulla politica energetica del Paese, per fornire un contribuito al Governo in carica (Berlusconi II) e ai partiti, in vista delle elezioni generali dell’aprile 2006. Poiché si era nell’imminenza del voto, furono incaricati dei lavori due relatori, uno di maggioranza, Stefano Saglia (capogruppo Alleanza Nazionale) e uno di minoranza, Erminio Quartiani (Democratici di sinistra – L’Ulivo), entrambi in quella legislatura riferimento in Parlamento dei propri partiti per l’energia.

Tra il novembre e il gennaio successivo furono auditi tutti i principali operatori nazionali del settore energetico, oltre alle associazioni di settore e i sindacati. Le conclusioni essenziali dell’indagine furono la necessità/opportunità per il Paese di diventare un hub dell’energia, soprattutto per il gas naturale, con almeno una capacità di importazione diversificata per fonti e provenienze grazie al GNL. La capacità doveva essere superiore del 20% rispetto alle previsioni di consumo interno, per poter esportare gas da sud verso il contro e il nord dell’Europa e mettersi in sicurezza.

La Commissione approvò il documento all’unanimità, inclusa Rifondazione Comunista, che però, con votazioni separate, fu contraria al possibile utilizzo del carbone “pulito” e del ritorno del nucleare. Qui il resoconto della votazione del 9 febbraio 2006 con le dichiarazioni di voto e il documento allegato, inviato ai parlamentari il precedente 2 febbraio.  Alla stesura parteciparono pure i commissari Massimo Polledri (Lega Nord), Franco Grotto (Gruppo misto – La rosa nel pugno), Massimo Provera (Rifondazione Comunista) e Pierfrancesco Gamba (Alleanza Nazionale). Nelle dichiarazioni di voto espressero pareri favorevoli anche Luigi Gastaldi (Forza Italia), Ruggero Ruggeri e Stefano Zara (Margherita – L’Ulivo).

Come fu possibile una tale convergenza politica solo due mesi prima delle elezioni? È che nel 2005, dopo le elezioni, era iniziata la guerra del gas della Russia contro l’Ucraina, fino all’anno precedente considerato un Paese vassallo, cui lo forniva a prezzi amicali; 50 dollari per mille metri cubi. I vincitori delle elezioni erano indipendentisti, favorevoli all’ingresso del Paese nell’Unione Europea. La Russia, che all’epoca esportava attraverso i gasdotti in Ucraina l’80% del gas fornito all’Europa (soprattutto all’Italia) chiedeva adesso 230 dollari, che gli ucraini non erano in grado di pagare.

La Russia minacciava di chiudere i rubinetti a Kiev, e questa sosteneva che ciò avrebbe coinvolto anche il gas che andava agli europei, con l’obiettivo di spingere gli importatori a intervenire sulla Russia. Dopo giorni e giorni di minacce, il 2 gennaio 2006 Gazprom chiuse un po' i rubinetti, con cali nei paesi europei tra il 25 e il 30% degli arrivi (da notare che il giorno precedente la Russia aveva assunto la presidenza di turno del G8). Gli europei fecero finta di essere tranquilli, contando sugli stoccaggi stagionali, ma in realtà la situazione era gravissima, soprattutto per il timore di incremento anche del freddo.

Dopo qualche giorno, si arrivò a complicati accordi tra la Russia e l’Ucraina, ma dopo qualche settimana, non per interruzioni “politiche” ma a causa del gelo siberiano che colpì la Russia, si ebbero continue riduzioni generalizzate delle esportazioni. In Italia fu necessario intaccare le riserve “strategiche” dopo aver ridotto i consumi industriali e autorizzato l’uso dell’olio combustibile nelle centrali a gas, oltre a incrementare l’uso del carbone.

 

Sottovalutazione dei rischi

La situazione tornò alla normalità solo alla fine di marzo, mentre il Ministero delle attività produttive e ENI si rimpallavano le responsabilità dell’emergenza. Una crisi si era verificata anche l’inverno precedente, in una situazione normale delle importazioni, a causa di un ritorno di freddo in Italia a fine febbraio-inizio marzo 2005, con gli stoccaggi pressoché esauriti. Insomma, il rischio meteorologico della dipendenza dai gasdotti e dell’insufficienza degli stoccaggi era ben noto.

Se fu tirato un sospiro di sollievo sul confronto tra Russia e Ucraina ad inizio 2006, gli scontri tra i due paesi sul tema gas si riaccesero a intermittenza, lasciando sempre dubbi sulla sicurezza degli approvvigionamenti. Tra l’altro nei contrasti tra i due Paesi erano anche in gioco i costi dell’ormeggio delle navi russe nei porti della Crimea, alzati dagli Ucraini per compensare l’aumento del costo del gas, fin quando la Russia non si prese l’intera regione nel 2014.

Quanto accaduto a cavallo tra 2005 e 2006 mise in luce la situazione di estrema dipendenza dai gasdotti dell’Italia, che stava completando la conversione delle sue centrali elettriche dall’olio combustibile, derivato dal petrolio, a quelle a gas naturale, con impianti a doppia turbina, molto più efficienti, economici e meno inquinanti, di cui aumentava la domanda.

Non sorprende quindi se i principali operatori nazionali e internazionali ascoltati dalla Commissione parlamentare, interessati al gas, suggerirono di sviluppare e realizzare nuovi rigassificatori di GNL (in Italia all’epoca c’era in funzione solo il piccolo impianto di Panigaglia alla Spezia) e fare dell’Italia un hub del gas: ENI, ENEL, British Gas, Edison, Terna, Antitrust, Autorità Energia, Confindustria, Federconsumatori, Adiconsum, i più espliciti.

Sull’esito della votazione ebbe un ruolo anche lo slogan proposto dai relatori: “Nella politica energetica nazionale è necessario avere più Stato e più mercato”. In quegli anni si era nel pieno del processo di liberalizzazione dei mercati energetici e il governo aveva annunciato una Conferenza nazionale sull’energia cui poi rinunciò, tanto che il commissario Luigi D’Agrò nella dichiarazione di voto disse “Di fatto, l’abbiamo svolta noi”.

Buona parte degli auditi, infatti, e coerentemente il documento finale, oltre che sulla dipendenza energetica, si concentrarono sulla permanenza nel mercato della posizione dominante di ENI, che controllava quasi tutto l’import di gas e quindi i prezzi (all’epoca solo il 20% del gas da essa commercializzato era venduto all’estero). E poi su quella dell’ENEL, che nonostante la vendita di tre gruppi di centrali (le cui tipologie il governo decise fossero stabilite dalla stessa ENEL, anziché dall’Autorità indipendente dell’energia) controllava la produzione di punta, e quindi i prezzi marginali, e quella di base, mentre i concorrenti avevano per lo più centrali intermedie, con maggiori costi delle base, anche a carbone, senza poter fare concorrenza sui prezzi marginali.

L’ENI, in particolare, come principale operatore del gas che all’epoca controllava anche la rete di trasporto, gli stoccaggi e l’impianto di rigassificazione, appariva responsabile per l’eccesso di dipendenza dalle fonti estere da pochi fornitori. Una maggiore apertura del mercato, era l’idea degli auditi, avrebbe permesso anche ad altri di sviluppare un po’ di concorrenza e quindi limitare le forniture dalla Russia e dall’Algeria via gasdotto.

Dopo parecchi anni, si riuscirono a costruire solo i rigassificatori offshore di Livorno (galleggiante) e Rovigo (appoggiato sul fondo), che si sono rivelati fondamentali dopo l’aggressione russa all’Ucraina, ma non sufficienti, e il gasdotto TAP, che però si sospetta possa veicolare gas russo, direttamente dall’Azerbaijan o attraverso l’incrocio con i gasdotti turchi, dove arriva  gas direttamente dalla Russia da due condutture sotto il Mar Nero.

 

Errori strategici

Se l’Italia avesse seguito le indicazioni della Commissione parlamentare, realizzando altri rigassificatori (all’epoca ne erano proposti una decina, ma nessuno dall’ENI anche se l’AD Paolo Scaroni in audizione si disse favorevole) certamente l’Italia non avrebbe subito i danni dei blocchi dovuti all’aggressione russa dell’Ucraina. Il mercato mondiale del GNL è cresciuto (poco) negli ultimi 20 anni e sta esplodendo adesso, perché deve rispondere alla domanda dei rigassificatori realizzati in fretta e furia negli scorsi due anni in Europa. In più Cina, India e altri Paesi stanno rispondendo alla crisi climatica incrementando l’uso del gas in sostituzione di carbone e petrolio, soprattutto con il GNL.

Come sempre nelle fasi iniziali o fortemente espansive di un mercato, i nuovi impianti di produzione si garantiscono una vendita certa, prima di aprire i cantieri. Così sarebbe successo se l’Italia avesse deciso di ridurre con il GNL il “rischio gasdotto”. Così è stato ad esempio per l’ENEL, che aveva progettato il rigassificatore di Porto Empedocle, e allo scopo comprò nel 2014 per 20 anni, più opzione per altri dieci, il GNL del primo impianto di liquefazione realizzato negli Stati Uniti. A buon prezzo, perché con quel contratto fu presa la decisione finale di investimento.

Poi l’ENEL non riuscì a realizzare il rigassificatore e dirottò il GNL alla controllata Endesa per fare elettricità in Spagna. Se l’Italia, in quegli anni secondo importatore europeo di gas (70 miliardi all’anno da Russia, Algeria e Libia, su 85 di consumo) avesse messo in cantiere più rigassificatori il GNL sarebbe arrivato. E a seguire probabilmente anche altri in Europa. Adesso la domanda mondiale di GNL è tale che si teme un crollo dei prezzi quando tutti gli impianti di liquefazione in cantiere e in progetto fossero realizzati. In più al GNL fossile adesso si accompagna il bioGNL, da considerare rinnovabile come il vento e il sole.

Fino al 2005 gli USA erano importatori di GNL ma divennero esportatori grazie all’impiego del fracking, che permette di sfruttare giacimenti orizzontali, in aggiunta a quelli a cupola. In più le nuove scoperte di giacimenti di gas a livello mondiale facevano prevedere in quegli anni una disponibilità tale da poter sostituire globalmente sia il carbone che il petrolio. E così è anche adesso, ma il sentiment del mercato europeo è cambiato e nell’attesa dell’elettrificazione tutta verde continuiamo a consumare petrolio, carbone e lignite.

Tra le bufale della pubblicistica filorussa diffuse dal 2021 fino a pochi giorni fa, l’idea che il GNL americano fosse “costoso”. È un falso, e chissà che adesso che lo ha scritto anche Draghi nella sua relazione per la Commissione, stampa e tv nazionali non inizino a correggersi. Il prezzo del gas americano all’origine è tra i più bassi nel mondo, solo che quando arriva in Europa prende i prezzi europei, e a guadagnare sono i rivenditori da noi. Tra l’altro le esportazioni di GNL riducono il gas per il consumo americano, facendone alzare il prezzo, con il rischio (reale) di decisioni politiche per riequilibrare il mercato interno, come Biden sta facendo.

 

I Governi italiani e Putin

Nel 2006 gli auspici della Commissione parlamentare non facevano i conti con la volontà del Governo, e il documento presto dimenticato. Sottotraccia, l’ENI, su richiesta del presidente del consiglio Berlusconi in contatto diretto con il presidente russo Putin, stava trattando con Gazprom il rinnovo dei contratti di importazione italiani. Principale obiettivo della prima fase della trattativa fu la disponibilità di 2-3 miliardi di gas russo per operatori italiani privati che avrebbero dovuto veicolarlo e rivenderlo in Italia. La disponibilità della russa Gazprom era garantita dal presidente Putin, nonostante la società avesse un accordo di esclusiva con ENI che andava modificato. In cambio dell’avvio delle trattative, Gazprom chiese come contropartita la ricontrattazione di tutti i contratti, l’allungamento da 20 a 30 anni (l’ultimo scade nel 2037…), lo spostamento del punto di consegna dal confine austro-slovacco a quello italo-austriaco (per permettere ai russi di modulare le forniture ed esportare dall’Austria verso la Germania), la vendita diretta da parte di Gazprom di proprio gas in Italia bypassando l’ENI. (*)

La società italiana ebbe la conferma della clausola “take or pay”, cioè l’obbligo per Gazprom di pagare il gas eventualmente non consegnato. Non si sa se possibili ulteriori interruzioni per contrasti politico-commerciali con l’Ucraina fossero esclusi o meno da questo obbligo. La conferma di fiducia dell’Italia nei confronti della Russia e il fatto che gli ucraini dovevano per forza far passare il gas per non danneggiare un Paese della UE grande consumatore come l’Italia, indebolì non poco Kiev nelle trattative con Gazprom sui diritti di passaggio.

Anche se non è ancora chiaro il valore formale degli impegni italiani con Gazprom prima delle elezioni del 9-10 aprile 2006, il Governo Prodi II, che succedette al Berlusconi II, si trovò una trattativa già conclusa tra Gazprom e ENI nelle sue scelte fondamentali. Quest’ultima era certo autonoma nella rivisitazione dei contratti, ma è chiaro che una decisione di questa rilevanza non poteva non essere condivisa dal Governo di turno. In ogni caso il Governo Prodi non aveva nessuna intenzione di denunciarlo o modificarlo significativamente. E l’ENI aveva un forte interesse, per conservare a lungo la posizione dominante sul mercato nazionale.

Quando i contratti furono formalizzati nel novembre 2006, l’unica variazione rispetto a quanto avevano previsto Gazprom ed ENI, fu che le vendite dirette di Gazprom sarebbero andate a società a controllo pubblico (ex municipalizzate) e non a privati. Ma resta un dubbio, che adesso andrebbe sciolto: il Governo Prodi che pubblicamente condivise l’accordo, nell’entusiasmo della stampa nazionale di tutti colori, era obbligato o no ad accettarlo nel rispetto di impegni del Governo precedente? O fu sua scelta autonoma?

Berlusconi e Prodi hanno sempre condiviso e vantato buoni rapporti con Putin e soprattutto il secondo ha ripetutamente giustificato la sua posizione con l’intento di aiutare la Russia, convinto che la sua crescita economica innescasse la crescita sociale e democratica. Questo nonostante Putin avesse con le sue azioni già prima del 2006 dimostrato volontà imperiale con l’obiettivo di recuperare gli spazi dell’ex Unione Sovietica.  Anche se a parole diceva di voler collaborare con l’occidente.

 

Di chi fidarsi?

Dal 1999 le aggressioni di Daghestan e Cecenia con bombardamento di mercati, colonne di profughi e nel 2004 la strage della scuola di Beslan in Ossezia, con 300 morti di cui 186 bambini, come adesso in Ucraina. Poi nel 2007 Putin venne allo scoperto con il discorso di Monaco, di cui troppo tardi si è capito che era una reale dichiarazione di guerra all’Occidente. In realtà si fece a lungo finta di non capire, neanche dopo la Georgia (2008), la Crimea e il Donbass (2014), l’appoggio alla dittatura siriana, la penetrazione in Africa, l’”occupazione” del porto di Tobruk con l’appoggio ad Haftar, che controlla la Cirenaica. Nei giorni della firma del contratto con Gazprom, novembre 2006, venivano assassinati la giornalista Anna Politkovskaya e l’ex agente segreto Alexander Litvinenko, ormai cittadino inglese.

E adesso a che punto siamo con la dipendenza energetica? Nell’autunno 2022 nella presentazione delle attività del nuovo governo la presidente del consiglio Meloni e successive dichiarazioni di esponenti ministeriali sembravano indicare la volontà di fare dell’Italia un hub energetico e in particolare del gas, iniziando dalla realizzazione degli impianti di rigassificazione a terra di Gioia Tauro e Porto Empedocle, già autorizzati. In linea con la Commissione parlamentare di 16 anni prima. In quel momento i prezzi del gas erano scesi a 100 euro/MWh, dai quasi 350 dell’estate, adesso sono intorno a 34, erano circa 20 nel decennio prima del covid, durante il quale scesero anche sotto 10 per il crollo dei consumi.

L’Italia ha tamponato la crisi con il rilancio delle importazioni via gasdotto e via GNL dall’Algeria (nel 2023 circa 23 mld), dall’Azerbaijan (9,9) e dal Qatar (sempre lo scorso anno circa 8), stabile l’import dalla Libia (2,5) e ancora dalla Russia (2,8). In totale circa 48 mld di gas su 61 di consumo interno. Forniture che potrebbero venire meno, per peggioramenti del contesto geopolitico internazionale e l’acuirsi del confronto tra Occidente ad economia di mercato e Cina, Russia e altri Paesi attivi sì sul mercato internazionale ma retti da regimi non democratici.

Il Qatar che ospita i dirigenti di Hamas, con chi starebbe? Potrebbe ad esempio preferire portare tutto il suo GNL in Cina e India; poi l’Azerbaijan, che pochi giorni fa ha stretto altri contratti di import con la Russia pur disponendo di produzione propria? Per chi sarà quel gas? E l’Algeria? Stretta alleata politica e soprattutto militare della Russia? Se si parla con gli operatori tutti sono convinti che gli algerini mai e poi mai interromperebbe le forniture, ma dicevano le stesse cose anche nei mesi precedenti l’attacco all’Ucraina per le importazioni dalla Russia, nonostante gli avvertimenti pubblici dei servizi segreti occidentali.

Foto A. Massarutto

 

Adesso?

Anche se non si sa bene quali potranno essere i consumi italiani di gas nei prossimi anni, per la crescita delle rinnovabili e l’ostracismo dell’Europa che, dai tempi del commissario Timmermans, ha messo il gas sullo stesso piano di carbone e petrolio, prudenza vorrebbe mettersi nelle condizioni di poterlo importare da Paesi sicuri, non solo USA, ma anche Canada, Australia, Messico, Perù, altri. Inoltre, non si sa quanto gas potrebbe servire se ripartisse la produzione industriale in Europa, soprattutto in Germania, e in Italia. Poi c’è il problema del rifornimento di gas agli altri Paesi importatori dalla Russia, visto che dal prossimo primo gennaio quel gasdotto verrà chiuso, come confermato dall’Ucraina.

Altra bufala diffusa dagli amici nostrani di Putin è che se rinunciamo al gas russo, Putin lo può vendere alla Cina e ad altri nel Pacifico; quindi, meglio se glielo continuiamo a comprare noi. Sbagliatissimo: se la Russia vende gas alla Cina tutti i rifornimenti occidentali che oggi la riforniscono verrebbero in Europa, aiutando anche i prezzi, che risentono spesso della domanda cinese e indiana di GNL.

L’Italia, con il nuovo rigassificatore di Piombino (1,2 mld nel 2023, ma può arrivare a 5), quello previsto al largo di Ravenna dal prossimo anno (altri 5), sommati a OLT al largo di Livorno (2,8 mld nel 2023, 4 nel 2022) e Adriatic LNG al largo di Rovigo e Panigaglia nel Golfo di Spezia, possiamo arrivare ad una capacità massima di rigassificazione di circa 36 mld mc, mancandone 25 per arrivare  almeno ai 61 del 2023. Improbabile che il quarto gasdotto, che ci collega al mercato dell’Europa del Nord a passo Gries (6,5 mld nel 2023) possa aumentare le forniture per l’Italia, perché già saturato dal resto d’Europa, in primis la Germania.

Alla fine, per essere al sicuro, la capacità di rigassificazione che ci manca è proprio quella dei tre impianti già autorizzati da anni e non realizzati: Gioia Tauro, 12 mld, Porto Empedocle, 8 mld, Falconara 4 mld. Il problema è che nell’incertezza del futuro del mercato, i proponenti chiedono una garanzia minima sul ritorno dell’investimento nel caso la domanda di rigassificazione non fosse sufficiente alla copertura dei costi per i circa 20 anni di ammortamento.

C’è un importante precedente, l’impianto OLT di Livorno, entrato in funzione nel 2013, fu approvato dal Ministero attività produttive per motivi di sicurezza degli approvvigionamenti, e l’Autorità di regolazione dell’energia ne garantì i ricavi, con maggiorazioni minime della bolletta, fin quando l’impianto non ha marciato da solo ed ha iniziato a guadagnare. Mai scelta dei dirigenti ministeriali fu più corretta; nel 2022, che abbiamo superato per miracolo, avremmo avuto 4 mld in meno di gas indipendente.

Adesso la valutazione è tutta politica, ed in ogni caso se si ragiona nella prospettiva dell’Italia hub, resta la possibilità di rifornire in controflusso, con il gasdotto dall’Italia all’Ucraina, che dal prossimo anno resterà inutilizzato, gli altri Paesi connessi, soprattutto Austria, Slovacchia, Repubblica Ceka ma anche Slovenia e Ungheria e la stessa Ucraina. Il rischio per noi, nell’incertezza di quanto gas consumeremo nei prossimi anni e decenni, è di avere una infrastruttura di rete, capace di gestire ben oltre 100 mld/anno dalla Sicilia alle Alpi sottoutilizzata, ed è chiaro che meno la si usa e più ci costerà nelle bollette. Tra l’altro il gas naturale è anche un precursore dell’idrogeno, e la rete del gas potrà essere utile quando si diffonderà adeguatamente.

La Repubblica Ceka ha proposto di utilizzare la propria rete di gasdotti per rifornire in controflusso gli altri Paesi con gas che potrebbe arrivare dalla Germania (che sta intanto costruendo rigassificatori a terra per 12 mld mc) mentre anche la Grecia sta pensando di sviluppare i propri gasdotti e impianti di GNL per arrivare a rifornire gli stessi Paesi da sud, coinvolgendo anche la Croazia che già si è dotata di un rigassificatore. E fa contratti con fornitori USA.

È recentissimo l’accordo del Presidente turco Erdogan con Putin per sviluppare un hub che potrebbe svolgere la stessa funzione partendo dal gasdotto Turk Stream, che già rifornisce di gas russo Bulgaria, Romania e Moldova, e potrebbe, anche attraverso la Serbia, collegarsi dall’Ungheria alla rete slovacca. Certo, la diffusione dell’uso del gas naturale nei Balcani, dove le rinnovabili hanno poche prospettive e si fa l’elettricità con il carbone, sarebbe benefico per l’Europa almeno dal punto di vista ambientale. Considerato che quei Paesi vogliono entrare in Europa meglio sarebbe se fosse gas non russo.

La guerra della Russia all’Ucraina si accanisce giorno dopo giorno, ma il ricatto del gas che Putin ha usato contro di noi, si può rovesciare. A quando l’impegno dei Paesi europei, e gli altri occidentali a economia di mercato, che non compreranno mai più gas di Mosca finché la Russia non si confermerà una vera democrazia? E dopo un congruo numero di anni ed elezioni? In Italia stiamo ancora importando gas russo, e ogni volta che a casa accendiamo il gas, dovremmo pensare che stiamo ancora finanziando la guerra di Putin contro la popolazione ucraina.

 

(*) Per le vicende e le trattative in quel periodo non posso che rimandare a Andrea Greco e Giuseppe Oddo, “Lo stato Parallelo”, Chiarelettere 2016, e degli stessi autori “L’arma del gas”, Feltrinelli 2023.

Articolo Gavagnin

Non posso che complimentarmi e condividere la precisa e documentata analisi storica esposta dal dott. Gavagnin. Anche dal Suo lavoro emerge la necessità che sia messo mano alle infrastrutture che ci mancano e si punti,nel frattempo,al ritorno al nucleare,colpevolmente abbandonato con un referendum farsa. Speriamo che il ministro Salvini abbia la forza di proseguire i tal senso e mi chiedo se gli Amici della Terra non possono diffondere il lavoro di Gavagnin in ambito governativo. Cordiali saluti e complimenti ancora al dott. Gavagnin. Ing. Marco Giangrasso