POLITICHE ENERGETICHE
Sì, ho cambiato idea. Radicalmente. Non credo che sia uno scandalo - “solo i cretini non cambiano mai opinione” diceva qualcuno - ma nel mio attuale ruolo di direttrice del giornale degli Amici della Terra, penso di dover spiegare il perché di questo cambiamento. Per un senso di lealtà verso gli iscritti e i dirigenti dell’Associazione e, comunque, per chiarezza verso lettori e interlocutori che, per anni, ci hanno visto “parteggiare” per un futuro non nucleare, sia pure con gli importanti distinguo che hanno caratterizzato gli atteggiamenti e i comportamenti degli Amici della Terra rispetto a quelli della maggioranza dei gruppi ambientalisti.
Alcune cose non sono cambiate mai
Gli Amici della Terra sono nati nel 1978 proprio sull’onda dei movimenti antinucleari presenti in tutta Europa e negli Stati Uniti. Abbiamo avuto un ruolo importante nell’opposizione al programma nucleare italiano agendo dall’interno del Partito Radicale che in quegli anni aveva fatto il suo ingresso in Parlamento con un minuscolo ma agguerritissimo gruppo di deputati. L’impegno forte di Pannella e Bonino consentì una grande visibilità ed efficacia alle nostre iniziative dentro e fuori il Parlamento, compresa la raccolta di firme, nel 1980, per un primo referendum popolare sulle leggi e gli accordi che erano alla base del programma nucleare italiano. La consultazione non si tenne, a causa della bocciatura del quesito da parte della Corte Costituzionale. Tuttavia, non penso di esagerare nell’attribuire a quella mobilitazione (popolare, politica, persino accademica) il merito – o la colpa? – della nascita di una vasta e diversificata opinione antinucleare che attraversò tutti i partiti di governo e di opposizione - e l’editoria - e che, poi, diventò maggioritaria nel paese a causa dell’incidente di Chernobyl.
Quell’opinione – ovvero, quel sentimento – fu determinante anche per la nascita del movimento ambientalista e poi delle Liste verdi. Certamente, anche questa circostanza contribuì a rendere ideologica la scelta antinucleare ben al di là delle mie intenzioni di giovane deputata nel primo gruppo di verdi in Parlamento. Il successo repentino della mobilitazione e del referendum post Chernobyl, la crisi e la debolezza della classe politica di quegli anni assestarono un colpo mortale al programma nucleare italiano determinando persino la chiusura anticipata delle centrali esistenti. La forte ideologizzazione, invece, non giovò ai Verdi in politica che, dopo il primo exploit nel 1987, a partire dagli anni ’90 hanno conosciuto un continuo declino, superati nel loro approccio dal populismo grillino.
Non dico che noi Amici della Terra fossimo immuni dall’ideologia del piccolo è bello, della produzione diffusa e controllabile dell’energia (qualsiasi cosa potessero significare allora - e oggi - queste suggestioni) ma, per noi, la battaglia antinucleare fu innanzitutto motivata dalla lotta contro i sistemi chiusi e autoritari, contro le decisioni coperte da segreto d’ufficio, per la trasparenza e la disponibilità dei dati ambientali, contro una classe di politici e scienziati che si ritenevano dispensati dall’informazione diffusa e dal confronto aperto sul destino e le aspettative dei territori coinvolti dalle iniziative industriali. Il nostro impegno principale, per anni, è stato quello per l’autonomia dell’autorità di controllo e sicurezza che, 35 anni fa, era solo una direzione generale (DISP) dell’ente di promozione del nucleare. Ottenemmo la sua separazione definitiva proprio nell’ambito del nostro più importante risultato di politica ambientale: l’approvazione della legge 61/94 istitutiva dell’ANPA, l’ente di coordinamento del sistema delle Agenzie per l’ambiente, poi trasformato in ISPRA. Successive riforme hanno complicato le cose in contrasto con le nostre aspettative ma, difficilmente in questo campo, un controllore controllato potrà essere riproposto.
Le residue ragioni di contrarietà, prima della guerra
Le nostre iniziative hanno avuto esiti alterni e controversi. Ma, nel mantenere questa sua impostazione di libertà, responsabilità e consapevolezza, l’associazione ha goduto anche della collaborazione di molti esponenti del campo opposto: esperti, tecnici, studiosi di fede nuclearista – dico “fede” perché, anche in campo nucleare, l’ideologia non difetta - sono diventati anche dirigenti, coordinatori e ispiratori delle nostre posizioni su argomenti ambientali complessi o controversi. La loro collaborazione ha condizionato anche le nostre posizioni sul nucleare, selezionando le informazioni, consentendoci valutazioni più fredde, segnalando le bufale e impedendoci così di spararle grosse.
Non abbiamo, quindi, mai avuto problemi a riconoscere che gli standard ambientali e di sicurezza adottati nelle centrali nucleari, almeno nei paesi occidentali, siano in linea con quelli delle altre attività industriali ad alto rischio e, quindi, accettabili. Né che “le scorie” radioattive, anche quelle ad alta attività, siano gestibili in sicurezza. Anzi, che debbano essere gestite in sicurezza insieme alle altre tonnellate di rifiuti radioattivi provenienti da altre attività – come quelle sanitarie - di cui l’Italia non può certo fare a meno. E la nostra posizione in favore del deposito nazionale è sempre stata chiara, a partire dall’impegno in questa direzione di Mario Signorino, quando era presidente dell’Agenzia nazionale per l’ambiente.
La nostra opposizione al nucleare civile si è attestata, negli anni, su alcuni problemi di fondo che derivavano dall’osservazione della realtà e che, fino a qualche anno fa, potevano ridursi a tre considerazioni generali:
- La prospettiva teorica del “rischio residuo”. Una probabilità bassissima di incidenti con rilascio di radioattività che, però, potrebbe comportare l’isolamento di un territorio, anche solo a fini precauzionali, per periodi lunghi. L’incidente di Fukushima ha aggravato questo aspetto perché, anche se l’osservazione dei dati rivela che le morti e i danni rilevanti sono derivati dallo tsunami e non dalla centrale, nei fatti, i territori interessati dai rilasci radioattivi sono ancora confinati.
- L’entità degli investimenti per la costruzione di ogni singolo impianto, anche a causa dell’adozione dei nuovi e più efficienti sistemi di sicurezza intrinseca, come quelli delle nuove centrali di terza generazione. È il caso della centrale finlandese di Olkiluoto e di quella francese di Flamanville che hanno più che raddoppiato i tempi di realizzazione e più che triplicato i costi. Questi aspetti ci hanno indotto a ritenere per lungo tempo che, a livello mondiale, il nucleare avesse ormai fallito la prova del mercato.
- L’aumento del rischio di proliferazione nucleare attraverso la diffusione del nucleare civile nei paesi emergenti in Asia, in Africa, in America Latina. Osservavamo, con la vicenda iraniana e con quella della Corea del Nord, quanto il Trattato di Non Proliferazione fosse inadeguato a fronteggiare i nuovi rapporti di forza fra stati nel mondo e ci auguravamo un blocco generalizzato di nuovi ordini.
In dieci anni è cambiato tutto, anche oltre le nostre previsioni sbagliate
In poco più di dieci anni dall’incidente di Fukushima che sembrava aver posto una pietra tombale sullo sviluppo del nucleare, molte nostre previsioni si sono rivelate sbagliate. E non solo le nostre, non solo quelle sui destini del nucleare. Basti pensare agli ultimi 3 anni con la pandemia e la guerra nel cuore dell’Europa, eventi che 10 anni fa potevano essere considerati solo nelle sceneggiature dei film di fantascienza.
Le politiche contro i cambiamenti climatici hanno ottenuto una forte affermazione. Con gli accordi di Parigi del 2015, le prospettive di decarbonizzazione delle economie, a cominciare dalla produzione elettrica, sono entrate a far parte delle priorità riconosciute dalla comunità internazionale e delle principali istituzioni sovranazionali. Il fatto che, in concreto, a livello mondiale, questi impegni siano disattesi, che le strategie praticate si rivelino inefficaci, che le emissioni che alterano il clima continuino a crescere così come l’utilizzo dei combustibili fossili, nonostante gli ingenti investimenti nelle fonti rinnovabili elettriche intermittenti, è esattamente il problema che si pone.
In particolare, la strategia europea che prefigge di trascinare l’economia mondiale su un percorso di decarbonizzazione fondato principalmente sulle nuove rinnovabili, dimostrandone sul campo fattibilità e vantaggi, si sta rivelando fallimentare: l’aumento delle emissioni climalteranti nei paesi emergenti supera di molto le faticose e costose riduzioni ottenute in Europa a scapito delle economie europee. Al fallimento si aggiunge il paradosso di favorire le tecnologie le cui filiere di produzione, dall’estrazione mineraria alle lavorazioni ad alto impatto ambientale, sono monopolio dei paesi come la Cina, responsabili dell’aumento esponenziale di emissioni.
La stessa riduzione delle emissioni in Europa è dovuta, almeno in parte, alla delocalizzazione dell’industria nei paesi dove le regole ambientali sono meno stringenti o addirittura inesistenti, dove il costo dell’energia è più basso e più stabile grazie all’utilizzo di fonti fossili nel modo più economico possibile e, dunque, inquinante. Così, molte delle emissioni dovute ai consumi europei non sono sparite, hanno semplicemente cambiato bandiera.
In questo quadro problematico, reso ancora più incerto dalla “imprevista” pandemia, si è inserita “l’imprevedibile” invasione dell’Ucraina, la straordinaria resistenza del suo popolo e del suo esercito e la sorprendente compattezza dell’Europa e degli altri paesi occidentali nel sostenerla. Sia pure con gravi contraddizioni, resistenze e qualche furbizia, l’Europa sta rinunciando al gas russo in tempi record, e si fa strada la consapevolezza che nessun fornitore dovrà più monopolizzare il mercato europeo dell’energia.
Mettendo da parte le ingenuità di chi (anche in ruoli di grande responsabilità) crede ancora che l’energia di pale e pannelli sia gratuita, una volatilità dei prezzi dell’energia senza precedenti ha provveduto a riaffermare l’imperativo della sicurezza degli approvvigionamenti come priorità delle politiche energetiche. Rimane la necessità di una transizione energetica e ambientale che, però, a dispetto dell’intransigenza velleitaria del green deal europeo, muove ancora passi incerti alla ricerca di risposte politiche (e tecnologiche) efficaci e praticabili.
Nel 2011, pensavamo che il nucleare avesse goduto dei più alti investimenti pubblici nella storia dell’energia. Non avevamo ancora visto gli incentivi alle rinnovabili elettriche intermittenti, le deroghe ai vincoli ambientale e paesaggistici, le molteplici semplificazioni della normativa che regola le autorizzazioni - in Italia si è messo mano perfino a modifiche costituzionali! - approvate in un clima politico emergenziale, solo per favorire l’impianto di un numero spropositato di turbine eoliche e pannelli fotovoltaici.
Queste tecnologie, pur avendo ricevuto un sostegno senza precedenti anche dalle istituzioni sovranazionali, in oltre 15 anni, non hanno corrisposto all’aspettativa di sostituire i combustibili fossili. Non hanno rappresentato una risposta alla crisi dei prezzi del gas e del petrolio, non sono diventate protagoniste della scena energetica ma appena comprimarie di qualsiasi altra fonte energetica continua che possa porre un rimedio alla loro intrinseca inaffidabilità. E il loro apporto alla domanda mondiale di energia è destinato a rimanere un contributo marginale, almeno fino a quando i sistemi di stoccaggio dell’elettricità non avranno compiuto quel “salto tecnologico” che in tanti attendono da più di 15 anni.
Inoltre, non ci si può meravigliare se, nonostante l’immagine “pulita” e “naturale” di pale e pannelli, le comunità locali, ovvero le popolazioni che vivono fuori dalle città continuino ad opporsi al loro impatto invasivo: l’effetto collaterale principale di queste tecnologie è una occupazione estensiva di suolo che rischia di trasformare irreversibilmente i più pregiati territori naturali in zone industriali, senza alcuna pianificazione e in deroga a qualsiasi norma di tutela. All’inverso, sono proprio le caratteristiche di densità energetica, continuità della produzione, limitata occupazione di spazio che riportano in auge il nucleare.
È cambiato il nucleare e siamo cambiati anche noi
Ce n’è abbastanza per tornare ad esaminare le nostre “residue” contrarietà al nucleare. Vediamole.
La previsione di un declino inarrestabile era sbagliata. Dopo Fukushima, lo sviluppo del nucleare ha sì subito una battuta d’arresto con un programma di stress test degli impianti esistenti in tutto il mondo ma, a parte la Germania (e l’Italia) non si registrano altri casi di chiusura dei programmi e delle centrali esistenti. Inoltre, la ripresa è stata consistente quanto inaspettata, prima nei paesi asiatici e poi, sia pure con ritardi e imprevisti, in tutto il mondo. È quanto emerge inequivocabilmente dall’ultimo quadro sintetico aggiornato da Alessandro Clerici: I reattori in funzione sono, nel 2023, 422 con una totale potenza di 377,9 GW, mentre la potenza totale mondiale dei reattori in costruzione al 31/12/2022 è di 59 GW in 32 Stati (Fonte IAEA).
I rapporti sugli investimenti globali nella transizione energetica a basse emissioni di carbonio segnalano che il nucleare civile è rimasto stabile nelle posizioni fra i principali settori di spesa, nonostante l’attrazione di capitali indotta dalla politica in favore delle fonti rinnovabili e della mobilità elettrica, anche prima dell’inclusione nella tassonomia europea, al netto del nuovo clima politico favorevole al nucleare che quella decisione ha indiscutibilmente determinato.
Ma la vera partita si comincia a giocare ora con i risultati della controversa decisione tedesca di chiudere le residue centrali nucleari mirando ad un futuro zero emissioni ma, nel frattempo, aprendo nuove miniere di lignite. Il confronto impietoso fra le emissioni di Francia e Germania, i due campioni europei di strategie energetiche opposte, rappresenterà il riferimento principale per le future politiche climatico energetiche di tutta l’Unione.
Quanto al rischio residuo, esso è ineliminabile. Ma non è più un’esclusiva del nucleare civile e, forse, non lo è mai stato. Il mondo ha già conosciuto altri grandi rischi di incidenti rilevanti come quelli, ad esempio, connessi all’industria chimica ma non per questo l’umanità – e nemmeno l’Italia - ha rinunciato a produrre farmaci, detersivi e disinfettanti. Piuttosto, l’industria chimica ha subito nuove regolazioni e ha investito nelle misure di sicurezza e salvaguardia ambientale.
È quanto sta accadendo anche con il nucleare, un campo dove ricerca e nuove applicazioni per la sicurezza delle centrali a fissione – quelle oggi esistenti - non si sono mai fermate e che vanta anche le maggiori prospettive di evoluzione in nuove, più efficienti tecnologie del futuro.
Infine, il nucleare civile rappresenta ancora oggi una delle strade per la proliferazione delle armi nucleari. Tuttavia, non appare più credibile che la rinuncia a costruire centrali da parte di alcuni paesi avanzati possa rappresentare un freno a questo rischio. Il problema dunque si pone, ma va risolto ad altri livelli.
Infine, la speranza di un’evoluzione equa per tutti i popoli è legata all’uso di tecnologie complesse, dove l’energia pulita, abbondante e a basso costo si conferma il motore principale per uno sviluppo sostenibile e non distruttivo dell’ambiente naturale.
Io penso che sia meglio star dentro questa partita, non fuori.
se ci fosse stata una Centrale in Romagna?
Ma in Emilia-Romagna una Centrale Nucleare c'è stata e come!!!! Caorso (Piacenza) ha funzionato egregiamente per 10 anni. Hanno funzionato senza problemi e per oltre 20 anni la Centrale Nucleare di Latina, a 70 km da Roma. Trino Vercellese a 60 km da Torino, Garigliano a 50 km da Napoli. Da diverse decine di anni funzionano decine di Centrali Nucleari appena al di là delle Alpi.
Le centrali sono gli edifici
Le centrali sono gli edifici strutturalmente più resistenti ai terremoti, al punto che qualcuno si spinge a sostenere che "in caso di terremoto potresti metterti in salvo andando in una centrale".
Tra l'altro lo dice letteralmente in questo articolo che il devastante terremoto in in Giappone (che se ricordo bene è nei primi 5 mai registrati al mondo) non ha provocato l'incidente, bensì lo tsunami seguente.
Un terremoto così non è mai avvenuto in Italia, quello che ha colpito la romagna a una centrale gli fa il solletico.
Cambiare idea sul nucleare
Brava Rosa...ero anch'io alle manifestazioni antinucleari a Montalto Di Castro nel 1978.
E anche io ho cambiato radicalmente idea....come gran parte degli italiani, visti gli ultimi sondaggi.
Ma in realtà non siamo cambiati noi...è cambiato il nucleare.
Quindi facciamolo 'sto referendum..(anzi...se lo facessero i contrari) e andiamo avanti
se ci fosse stata una centrale nucleare in Romagna?
ma x favore ... pensa se ci fosse stata una centrale nucleare in Romagna..
.. uno sproposito di soldi x costruirla.. gestioni politico mafiose... un ipersproposito di soldi x la manutenzione e la dismissione ..... ADESSO COMINCI A COSTRUIRTI UN ALTRO REFERENDUM ... LO FACCIAMO ... E POI CAMBI LAVORO .