COME MAL-TRATTARE UN OBIETTIVO CONDIVISIBILE
L’iniziativa governativa di “porre un tetto” all’edificazione nei terreni agricoli viene analizzata sotto due aspetti: le motivazioni e il meccanismo di controllo ipotizzato. I terreni agricoli sono interessati da complessi processi evolutivi che vanno studiati attentamente per non sbagliare diagnosi. L’evoluzione, ad esempio, sembra caratterizzata più da un ristrutturazione e riorganizzazione dei terreni agricoli che da una loro diminuzione di superficie. D’altra parte, l’espansione edilizia delle città, che è in ogni caso un problema all’ordine del giorno, appare difficilmente controllabile con il meccanismo proposto dal DDL governativo.
Recentemente, una serie di articoli, soprattutto del “Corriere della Sera”, hanno descritto l’iniziativa del governo di “porre un tetto” all’edificazione ed alla cementificazione fissando “l’estensione massima di superficie agricola edificabile” – provvedimento che viene reputato necessario a fronte della constatazione che “in 40 anni si sono perse aree estese come Lombardia, Liguria ed Emilia Romagna”.
Un controllo dell’edificazione selvaggia nelle nostre città – peraltro negli ultimi anni non più frutto soprattutto di abusivismo familiare diffuso, ma permessa da regolari autorizzazioni comunali (che hanno prodotto quartieri mostruosi, ad esempio, a Roma alla Bufalotta o in fieri a La Storta) – può essere un obiettivo condivisibile al fine di evitare sia ulteriori danni al territorio, sia possibili “bolle speculative alla spagnola” causate da un eccesso di nuovi edifici. La stampa elogia l’iniziativa del governo e si dilunga sulle motivazioni. È d’obbligo analizzarle per identificare i termini dell’iniziativa.
L’affermazione che sia stata “cementificata un’area pari alla grandezza di Lombardia, Liguria e Emilia-Romagna” mette in evidenza un primo problema. L’affermazione corretta sarebbe: “l’area utilizzata come SAU (superficie agricola utilizzabile) è diminuita, nell’arco del periodo di tempo considerato, di un’estensione pari alla grandezza di Lombardia, Liguria e Emilia-Romagna”. Questo fatto, non indicato nel titolo e nel testo degli articoli, è correttamente riportato nel grafico più a sinistra di pag. 51 del “Corriere della Sera” del 15 settembre 2012, dove è evidente la dicitura SAU. Bisogna ora identificare dove si sia avuta questa perdita di terreno, dove sia stata trasferita e a quale uso sia stata destinata.
Contrariamente a quel che si può pensare, con la dicitura SAU non si intende tutto il terreno “verde” o che ospiti vegetazione, e neanche tutto quello occupato dalle aziende agricole, ma solo parte di esso e precisamente: i terreni seminativi (coltivazioni estensive, intensive, ad alta e media produttività, su grande, media e piccola scala), le colture permanenti (legnose e da frutta), i prati e pascoli (soprattutto concentrati in Sardegna) e – categoria di piccole dimensioni – orti familiari; nel complesso pari a meno del 50% del territorio. La SAU non comprende il bosco, foreste e macchia, e neanche la categoria “altro” che si riferisca al terreno improduttivo, incolto, non utilizzato occupato dai servizi delle aziende agricole (fabbricati rurali, cortili, aie, strade poderali, ecc.), e impiegato per usi non-agricoli; nel complesso pari a poco meno del 50% del territorio.
Se si analizzano separatamente queste categorie di vegetazione (SAU e non-SAU), sempre per lo stesso periodo di tempo, si può notare che la perdita d territorio riguarda solo le categorie comprese nella SAU, con l’eccezione in certi periodi dei pascoli, cioè, si ha una diminuzione della SAU. A questa perdita fa riscontro un aumento dei boschi, concentrato nella parte finale del periodo considerato (dal 2001 al 2010), e un aumento ancora maggiore, per tutto il periodo considerato (1971-2010), dell’ultima categoria (incolto e altro) fino al 33% di incremento (con punte fino al 56%).
In altre parole, una notevole frazione di territorio è stata trasferita all’incolto e parte di questa ha visto la ricomparsa della macchia e del bosco. Ora, una parte di questo incremento può riguardare l’aumento dell’edificato, ma gran parte deve necessariamente riferirsi ai terreni marginali, compresi quelli abbandonati di recente dall’agricoltura e passati alla riforestazione (naturale o antropica). E’ probabile peraltro che un ruolo lo abbia avuto anche il diffondersi degli impianti speculativi eolici e fotovoltaici. Quindi, in sintesi, un’estensione di territorio pari a Lombardia, Liguria e Emilia-Romagna è stata in gran parte trasferita da una categoria all’altra di terreno (solo in una parte minoritaria edificato).
Questa interpretazione è confermata da diversi fatti: in primis, nel periodo di tempo 1971-2010, la popolazione rurale è diminuita solo del 10%, contro una contrazione della SAU del 28%. E’ noto e dimostrato poi che nei terreni a coltivazione estensiva o coltivati a piccola scala vi è una precisa tendenza alla marginalizzazione, soprattutto in presenza di fenomeni di siccità e desertificazione (in Italia meridionale, tipico esempio la Basilicata, ma anche nel Midi francese, in buona parte della Spagna e nel Portogallo meridionale). Sono aumentati, nella diminuita SAU, gli spazi dedicati alle produzioni mediterranee di qualità (frutta, pomodori, viticoltura, olivicoltura); viene cioè accentuato l’utilizzo dei terreni migliori. Lo stesso ISTAT fa notare poi che negli ultimi anni le superfici rimangono relativamente stabili mentre sono le aziende a diminuire di numero, soprattutto quelle di piccole e medie dimensioni, a favore di quelle con superficie superiore ai 30 ettari, in aumento soprattutto nel Mezzogiorno.
Infine, è interessante notare come si sia verificato un sostanzioso aumento delle aziende agricole coinvolte in attività multifunzionali (agriturismo, ambiente, artigianato, ricreazione, ecc.).
Ci troviamo quindi di fronte ad una fase di ristrutturazione del tipo di destinazione agricola del territorio, che andrebbe studiata e valutata, ed eventualmente assistita affinché si evolva per il meglio. Queste indagini sono rese necessarie anche da un dato di fatto completamente trascurato nelle motivazioni governative: benché l’Italia sia notevolmente popolata, la distribuzione della popolazione è altamente disomogenea, essenzialmente per ragioni geografiche che rendono parti rilevanti del territorio meno adatte al popolamento umano.
Il 38% del territorio nazionale può essere considerato composto da aree a bassa urbanizzazione sulla base della densità della popolazione (1/3 o meno della densità media italiana, ossia <100 abitanti/km2, quando la densità può superare 1.000 nella provincia di Milano e 2.000 in quella di Napoli). Queste aree meno popolate sono: l’Arco Alpino (Cuneo, Verbania, Vercelli, Aosta, Sondrio, Bolzano, Trento, Belluno), la dorsale dall’Appennino Tosco-Emiliano alla Calabria), la Maremma (Grosseto, Siena, Viterbo), alcune zone di montagna (Rieti, L’Aquila, Campobasso, Isernia, il Sannio-Irpinia, gran parte della Calabria), la Capitanata-Gargano (Foggia), l’intera Basilicata, Enna, tutta la Sardegna.
In questa foto dell'Italia meridionale ripresa dalla Nasa le luci notturne indicano chiaramentele zone ad alta densità di popolazione ( Napoli, Bari, Salento, ecc...) e quelle a bassa densità di popolazione (Sanno, Appennino Dauno e soprattutto la Sila greca)
In precedenza, prima delle grandi bonifiche dell’inizio del secolo scorso e degli anni ’30, erano scarsamente popolate anche molte zone costiere e paludose (e infestate da pirati fino all’800): il litorale toscano, quello laziale con la Campagna Romana, il litorale campano fino a Napoli e da Salerno in poi fino a Reggio, la costiera ionica dalla Calabria fino a Gallipoli, il Gargano, la zona delle lagune da Comacchio a Grado (tranne Venezia), parte delle coste orientali e meridionali della Sicilia, tutte le lagune e aree salmastre, numerose zone crateriche e laghi senza emissari.
E’ essenziale quindi salvaguardare il buon terreno agricolo, SAU o non-SAU, ma anche favorire il ritorno a macchia, bosco, foresta (anche per la produzione di biomassa) dei terreni marginali, dismessi e incolti.
Non va trascurato il problema dell’edificato, soprattutto intervenendo sulla pianificazione urbana e suburbana ai diversi livelli, con priorità in certe parti del territorio, non necessariamente introducendo ulteriori norme difficili da applicare, ma curando che non siano proprio i comuni, con piani di sviluppo speculativi ed alla ricerca di risorse finanziarie, a incentivare il cattivo utilizzo del territorio. Cattivo utilizzo, visibilmente in atto senza bisogno di tirare in ballo nuove catastrofi, che andrebbe contrastato in modo non burocratico e senza “effetti annuncio”.
Purtroppo, il DDL governativo non lascia ben sperare perché, come spesso accade in Italia, introduce una sovrastruttura burocratica che ben difficilmente potrebbe funzionare. Infatti, l’iter previsto comprende:
- un decreto del Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali, d’intesa con il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, con il Ministro per i beni e le attività culturali e con il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, per “ determinare l’estensione massima di superficie agricola edificabile sul territorio nazionale, tenendo conto dell’estensione e della localizzazione dei terreni agricoli rispetto alle aree urbane, dell’estensione del suolo che risulta già edificato, dell’esistenza di edifici inutilizzati, dell’esigenza di realizzare infrastrutture e opere pubbliche e della possibilità di ampliare quelle esistenti, invece che costruirne di nuove”;
- un atto della Conferenza delle Regioni e delle Province autonome, per ripartire la superficie agricola edificabile tra le diverse Regioni;
- qualora la Conferenza non provveda entro il termine di 180 giorni dall’adozione del decreto interministeriale, un decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro delle politiche agricole ambientali e forestali, sentito il Comitato interministeriale e acquisito il parere della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome;
- una decisione delle Regioni e Province autonome per la ripartizione tra i Comuni esistenti in ogni Regione dell’estensione dei terreni agricoli edificabili;
- qualora le Regioni non provvedano entro il termine di 180 giorni, un decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro delle politiche agricole ambientali e forestali, sentito il Comitato interministeriale e acquisito il parere della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome: il Consiglio dei Ministri delibera, in esercizio del proprio potere sostitutivo, con la partecipazione dei Presidenti delle Regioni o delle Province autonome interessate;
- un decreto del Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali, d’intesa con il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare con il Ministro per i beni e le attività culturali e con il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, e acquisita altresì l’intesa della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome, per l’istituzione di un Comitato con la funzione di monitorare il consumo di superficie agricola sul territorio nazionale e il mutamento di destinazione d’uso dei terreni agricoli.
Il Comitato interministeriale è composto da:
- tre rappresentanti del Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali;
- due rappresentanti del Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare;
- due rappresentanti del Ministero per i beni e le attività culturali; due rappresentanti del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti; due rappresentanti dell’Istituto nazionale di statistica;
- cinque rappresentati designati dalla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome.
Nessun ulteriore commento è necessario.