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2024-11-15 01:08

Meno Male Che C’è il TAR

LA SENTENZA SUL COMBUSTIBILE DAI RIFIUTI (CSS)

di: 
Andrea Ballabio, Donato Berardi, Antonio Pergolizzi, Nicolò Valle

Una recente sentenza del Tar del Lazio conferma la piena legittimità dell’impiego del combustibile da rifiuti (CSS) nei cementifici e, più in generale, pone un freno alle pretestuose interpretazioni del principio di precauzione. Gli autori di questo articolo, del Laboratorio di REF Ricerche, ne commentano per noi il contenuto e i possibili effetti in un contesto paese – burocratico, politico e di affollamento normativo– spesso condizionato da pregiudizi, che non favorisce l’innovazione tecnologica e nemmeno l’ambiente.

Foto di copertina: Italcementi - Roberto Caccuri

Non si può impedire l’ammodernamento tecnologico di impianti produttivi sulla base di timori o incertezze, quando non c'è alcuna evidenza scientifica di danni per la salute. Così il TAR del Lazio si è espresso in questo inizio 2021 sull'uso del combustibile da rifiuto nei cementifici in una recente sentenza sul ricorso di alcuni comitati. Dello stesso identico tenore si è espresso in quegli stessi giorni il Tar del Veneto [1], dando piena legittimità al lavoro della prima linea dell’impianto di Veritas che continua a trasformare una parte del CSS prodotto in energia. Nello specifico veneziano, si tratta solo del 15% dei rifiuti indifferenziati raccolti nel rispettivo ambito di riferimento, a fronte di un recupero di materia che interessa il restante 82% (con solo il 3% destinato alla discarica).

Come capita spesso nel nostro paese, nell’assenza di una guida sicura della classe politica (a ogni livello territoriale), spesso timorosa di scegliere nell’interesse di tutti, e in presenza di una conflittualità esasperata (soprattutto nel campo dei rifiuti) ci si affida alla magistratura per uscire dall’impasse. Dovrebbe essere una eccezione, è invece la regola.

Per essere chiari: valorizzare in senso energetico, in sostituzione di fonti fossili, scarti che andrebbero in discarica è una pratica pienamente rispettosa della gerarchia dei rifiuti definita dalla normativa UE e italiana e un passaggio cruciale, almeno nell’immediato, sulla strada della decarbonizzazione della nostra economia.

È infatti acclarato il fatto che per raggiungere gli obiettivi di neutralità climatica e riduzione delle emissioni di gas serra, da qui al 2050 l’apporto delle fonti rinnovabili non sarà sufficiente. Lo spiega un rapporto della Fondazione Ellen MacArthur: l’energia green potrà – al massimo – contribuire al 55% della riduzione di inquinanti entro il 2050, ma non oltre. È necessario trovare soluzioni alternative, in grado di dare il loro supporto alla lotta al cambiamento climatico.

Tra le opzioni a disposizione ve ne è una che coinvolge qualcosa che la nostra società produce e possiede in abbondanza e di cui si deve costantemente occupare: i rifiuti. L’adozione di modalità di trattamento che, allo smaltimento in discarica, preferiscono il riciclaggio realizzato con sistemi tecnologicamente avanzati danno ottimi risultati in termini di minore inquinamento del Pianeta. Secondo l’Unione europea, se si seguisse questa strada, la sola Italia eviterebbe di immettere qualcosa come 111 milioni di tonnellate di gas serra in atmosfera.

Tuttavia, il riutilizzo di materiali attraverso il riciclaggio (dal vetro si avrà altro vetro o dall’alluminio altro alluminio e così via) non è l’unica scelta a disposizione per ricavare benefici ambientali da quello che non serve più. Ve n’è un’altra dalla grande potenzialità: trasformare ciò che viene scartato in una nuova fonte energetica meno inquinante da utilizzare in sostituzione di quelle fossili che siano carbone, petrolio o gas naturale. Se solo si adoperasse questo “carburante” più pulito per alimentare le attività produttive e soprattutto industriali, oggi responsabili di una quota pari al 21% dell’emissioni globali, risparmieremmo tonnellate di CO2 e molti milioni euro.

Come spesso accade, vi sono notizie buone e cattive. La buona notizia è che non ci si trova di fronte a uno scenario “da laboratorio”, con test e sperimentazioni ancora in corso; infatti il “carburante” proveniente dal trattamento dei rifiuti già esiste, è pronto all’uso e si chiama CSS, l’acronimo di Combustibile Solido Secondario. Al pari della più nota digestione dei rifiuti organici e dei fanghi (aerobica e/o anaerobica), il CSS è un altro sistema per recuperare energia termica ed elettrica; questo combustibile a basso contenuto di carbonio è composto dalla frazione secca e dal bioessiccato derivanti dal trattamento dei rifiuti urbani oppure dalla combustione di frazioni secco/umido variamente combinate.

Ad oggi, il CSS è scarsamente utilizzato, poco compreso e talvolta osteggiato. Una condizione che riguarda anche chi, come l’industria cementiera avrebbe tutta la convenienza nel servirsene (oltre che l’autorizzazione a farlo). I dati non lasciano dubbi: se il settore smettesse di usare fonti fossili per generare l’energia necessaria alla produzione e si rivolgesse al CSS, vi sarebbero 700 milioni di euro di risparmi e 10 milioni di tonnellate di CO2evitate ogni anno.

Eppure, una serie di aspetti ostacola l’attuazione di questo disegno. Vediamone alcuni.

  • Il quadro normativo poco chiaro e complicato. Esistono due tipi di CSS: uno che viene definito rifiuto (disciplinato dall’art. 183 comma 1, lettera cc) del D.Lgs. 152/06) e un altro che, invece, è considerato non-rifiuto (ovvero il CSS Combustibile normato dall’art.184 ter del D.Lgs. 152/06 o meglio noto come TUA). Benché uno e l’altro svolgano la stessa funzione di combustibile, quindi di recupero energetico da frazioni di scarti, il primo rimane a tutti gli effetti un rifiuto speciale, mentre il secondo ha perso tale qualifica meritandosi lo status di vero e proprio combustibile/prodotto. Unambiguità lessicale che contribuisce a creare confusione sulle modalità di utilizzo, al di là delle leggi e norme che regolano il CSS e la sua produzione.
  • Un altro fattore di freno è la procedura che porta allottenimento di CSS utilizzabile come combustibile e che riguarda i trattamenti necessari per il recupero di materiali dai rifiuti indifferenziati. Infatti, solo il 13,8% dei rifiuti urbani in uscita dagli impianti di trattamento (pari a 1,3 milioni di tonnellate) è inviato a ulteriori trattamenti quali la raffinazione per la produzione di CSS o la biostabilizzazione (dati 2017). Inoltre, solo una parte degli impianti di trattamento in funzione ha le autorizzazioni e la tecnologia adeguate a produrre CSS (sia come rifiuto che come prodotto). Ciò significa che, nel 2017, dei 130 impianti di trattamento dei rifiuti operativi sul territorio nazionale, appena il 30% produceva genericamente CSS.
  • Pesano anche iter burocratici e autorizzativi complessi, lunghi e costosi che fanno desistere anche i potenziali utilizzatori. Uno fra questi riguarda la procedura per il rinnovo e la revisione dell’Autorizzazione Integrata Ambientale (AIA) e quella – aggiuntiva – per l’ottenimento della Valutazione Integrata Ambientale (VIA). Quest’ultimo è un requisito particolarmente difficile da ottenere, ragione sufficiente perché molti gestori di cementifici desistano dal proposito di utilizzare CSS.
  • Altro ostacolo a una reale diffusione del CSS è rappresentato dalla mancanza di sbocchi di mercato. Chi produce CSS ha un flusso in entrata costante e l’esigenza di trovare collocazione finale in tempi rapidi. I cementifici, che ne rappresentano il naturale sbocco, hanno una domanda ciclica e utilizzano il CSS solo come complemento del pet coke, un derivato della lavorazione del petrolio, che ha un costo ed è assai più inquinante del CSS, perché non devono assoggettarsi ai complessi controlli che invece governano l’utilizzo del CSS.
  • Per finire, non manca lopposizione dellopinione pubblica che, spesso non guidata da normativa complicata si è detta contraria all’utilizzo di CSS, considerandolo nocivo per la salute. Un’opposizione che in alcuni casi ha convinto persino gli Enti pubblici che, strumentalizzati o timorosi di perdere consenso, si sono piegati alle posizioni dei comitati del “NO”.

Proprio sull’opposizione dell’opinione pubblica, lo scorso 7 gennaio è stato segnato un punto importante nella diatriba fra i comitati del “NO” al CSS e chi invece ne sostiene l’utilizzo. Con sentenza n. 219, il Tribunale Amministrativo Regionale (TAR) per il Lazio ha rigettato il ricorso avanzato dagli immancabili “Comitati del NO” per l'annullamento della delibera di Giunta Regionale dell'Emilia-Romagna n. 1176/2016 del 25.7.2016, con la quale si forniva una valutazione d'impatto ambientale (VIA) positiva al progetto di modifica del cementificio di Vernasca (PC) presentato da Buzzi Unicem Spa, finalizzato all’impiego di combustibile solido secondario “CarboNeXT”.

Appare evidente che la sentenza n. 219 rappresenterà un precedente giurisprudenziale decisivo nello spostare l’ago della bilancia lontano dalle posizioni “NIMBY” e a favore di un impiego più diffuso del CSS, pertanto occorre analizzare attentamente le argomentazioni e i principi enunciati dal TAR Lazio nella sentenza.

Secondo i ricorrenti, l’impiego del CSS nel cementifico di Vernasca avrebbe implicato “severi rischi per la salute umana”, e ciò sarebbe stato deducibile dalle prescrizioni dettate nella VIA impugnata e rinforzato da una proposta di Legge formulata dalla Regione Emilia-Romagna e finalizzata all’abrogazione del D.M. dell'Ambiente 22/2013 sull'impiego del CSS (c.d. “Decreto Clini”).

Le principali argomentazioni dei ricorrenti ruotano intorno all’applicazione del principio di precauzione dell’Unione Europea (art.191 del TFUE, recepito dal art. 301 del d.lgs. 152/2006), secondo cui le esigenze di tutela della salute prevalgono rispetto alle condizioni economiche. Secondo i ricorrenti:

  1. il D.M. 22/2013 violerebbe il principio di precauzione;
  2. di conseguenza, il provvedimento di VIA della Regione Emilia-Romagna sarebbe illegittimo perché a sua volta violerebbe il principio di precauzione, ma anche il principio di buon andamento, proporzionalità e ragionevolezza; sarebbe poi illegittimo per eccesso di potere per contraddittorietà, difetto di istruttoria, sviamento e per violazione dell’art. 32 della Costituzione.

Riguardo alla violazione del principio di precauzione da parte del D.M. 22/2013, il giudice amministrativo ha richiamato una sentenza dello stesso TAR Lazio (n. 4226 del 4 aprile 2017) che, aveva respinto un ricorso avanzato da alcune associazioni ambientaliste per l’annullamento del medesimo decreto. Con lo stesso spirito, il collegio ha rigettato il ricorso contro l’impiego di CSS nel cementificio di Vernasca.

In prima battuta il TAR Lazio pone in evidenza due elementi fattuali, con riferimento alla richiesta di annullamento del “Decreto Clini”, infatti:

  1. il D.M. 22/2013 è stato notificato alla Commissione Europea senza che sia stata sollevata o eccepita in alcun modo la sussistenza di pregiudizi in relazione ai principi di tutela della salute o di prevenzione dell’ambiente;
  2. l’impiego del CSS è in linea con quanto previsto dalla “gerarchia dei rifiuti” e con le best practices implementate in altri Paesi UE (che individuano un mix ottimale per la gestione dei rifiuti finalizzato all’annullamento del ricorso alla discarica tra il 30-45% di recupero termico).

Appurata la legittimità del D.M. 22/2013 che consente l’impiego del CSS, il collegio rigetta le motivazioni dei ricorrenti circa le incertezze scientifiche da loro sollevate per “la natura meramente ipotetica della censura, che veicola una ragione di insicurezza fondata solo su timoris caturenti da fondamenti insufficienti ai fini del presente giudizio”.

Di più, il collegio sottolinea che “gli argomenti con i quali i ricorrenti affermano che il CSS avrebbe un contenuto emissivo superiore in metalli ed altre sostanze rispetto al pet-coke (noto e inquinante scarto della raffinazione del petrolio – ndr), con conseguenti variazioni in pejus dei relativi limiti di immissioni, sono ampiamente esaminati nella produzione (anche tecnica) della ricorrente (e smentiti in fatto dal rilievo effettuato a processo avviato)”.

Tale concetto è ulteriormente ribadito e rafforzato nelle pagine della sentenza laddove il collegio richiama la non sussistenza al principio di precauzione affermando che “il principio di precauzione postula la sussistenza di una effettiva incertezza scientifica circa l’effetto di un determinato impiego di tipologie di prodotti nell’attività industriale o produttiva, ai fini della protezione ambientale e della salute umana: ma l’osservanza di tale, pur fondamentale, principio, non può spingersi al punto di impedire l’ammodernamento tecnologico di impianti produttivi in presenza di meri timori o incertezze”.

Si tratta di affermazioni che sembrano segnare un punto non soltanto rispetto all’impiego del CSS nei cementifici, del cui beneficio ambientale ed economico si è già detto, ma più in generale di un freno alla “irrazionalità” e alle sindromi da NIMBY, che spesso nascono dalla totale mancanza di fiducia verso le istituzioni e gli stessi attori economici. Se le iniziative impiantistiche sono percepite come estranee sin dall’inizio, e questa è purtroppo la prassi, allora è facile che si innestino forme di conflittualità diffuse, dove finiscono per venire meno persino le buone intenzioni.

 

I processi di innovazione tecnologica e di infrastrutturazione territoriale dovrebbero essere affiancati da percorsi paralleli di coinvolgimento e partecipazione delle comunità interessate, in un’ottica di trasparenza e lealtà. Il dibattito pubblico, attualmente previsto solo per le grandi opere, dovrebbe invece accompagnare ogni iniziativa impiantistica e diventare prassi consolidata, e naturale, per attivare dialogo sempre franco e costruttivo. Solo all’interno di un luogo istituzionalizzato e decontaminato da disinformazione e pregiudizi, come dovrebbe essere l’istituto del dibattito pubblico, è possibile costruire fiducia e consapevolezza, sempre e solo nell’interesse di tutti.

 

Per approfondire:

Decarbonizzazione a costo zero: il caso del combustibile da rifiuti, Contributo n. 135 - REF Laboratorio Servizi Pubblici Locali, novembre 2019

NOTE


[1] N. 00050/2021 REG.PROV.CAU.; N. 00004/2021 REG.RIC.