INTERVISTA AD AGIME GERBETI
Abbiamo chiesto all’autrice di “CO2 nei beni” un parere sulla praticabilità degli obiettivi europei 2030 di decarbonizzazione, sull’efficacia del meccanismo UE di ETS e sulle criticità per l’industria europea ecoefficiente. La proposta dell’Imea, che è molto diversa da un dazio alla frontiera (carbon “border” tax) e che rappresenterebbe un vantaggio perpetuo per chiunque produca beni emettendo di meno, può trovare sostenitori nel Governo e nelle istituzioni italiane.
D. Che risultati sta dando la prima fase di attuazione della riforma dell’ETS? Con questa impostazione l’UE potrà conseguire l’attuale obiettivo 2030 della riduzione del 40% delle emissioni climalteranti rispetto al livello del 1990? E con quali conseguenze per l’economia europea?
R. La direttiva ETS 2003/87/CE come modificata dalla dir. 2009/29/CE attualmente in vigore è stata oggetto nel 2014 di una riforma strutturale. Il motivo era legato al mancato funzionamento del mercato delle quote, con i prezzi bassi bisognava far fronte al surplus di offerta.
In base a questa riforma sono state accantonate 900 milioni di quote di CO2 dalle aste (2014-2016) che si sarebbero dovute rimettere sul mercato nel periodo 2019 – 2020. Invece, con l’istituzione della cosiddetta riserva stabilizzatrice, è stato deciso di accantonare queste quote direttamente nella riserva. Già con questa modifica, il prezzo della CO2 è aumentato di circa 2 € ma, con l’adozione della direttiva 2018/410/UE, il prezzo è letteralmente triplicato nel 2018 (dai 5.83 ai 15.88[1] €/tonCO2) rispetto al 2017. Il continuo intervento legislativo rende evidente che l’ETS è un meccanismo di mercato pilotato verso un aumento forzoso dei prezzi.
Gli obiettivi al 2030 sono raggiungibili ma abbiamo dietro l’angolo un altro obiettivo di ridurre le emissioni del 80% nel 2050. Il punto è che bisogna fare delle scelte economiche che avranno forti ricadute sociali e ambientali, non sempre positive.
D. Quali sono le conseguenze più rilevanti dei processi di carbon leakage per l’industria italiana? Quali sono i settori più colpiti? Il Governo italiano sta prendendo delle misure per fronteggiare le criticità che stanno emergendo?
R: Quando pubblicai il libro “CO2 nei beni”, nel quale sostenevo che l’ETS creava un peso asimmetrico sulle industrie e limitava la competitività di quelle europee, non trovai, per usare un eufemismo, un ambiente favorevole. Ma si può comprendere la posizione, il prezzo della CO2 era all’epoca (2014) al minimo storico a 4,5€/ton. Ora che si attesta a 26[2]€/ton. è diventato un problema molto significativo, soprattutto per gli energivori.
Faccio un esempio paradigmatico: il settore ceramico italiano è un’eccellenza che impiega circa 25.000 lavoratori sul territorio. Con l’ETS ha sostenuto costi nella fase 3 (fino al 2020) per 60[3]mln€ e dovrà affrontarne ben 305 mln€ (solo nel sotto-settore di produzione delle piastrelle di ceramica) fino al 2030 (fase 4). E questo poco interessa gli aspetti più propriamente ambientali perché, con notevoli investimenti in efficienza e in sistemi cogenerativi, quella europea e italiana in particolare è un’industria molto competitiva sulla sostenibilità ambientale relativamente al contesto emissivo internazionale. Un’azienda tipo con investimenti in processi di sostenibilità di 50-60 mln€ si vedrebbe addossare un impatto economico complessivo di costi economici delle quote tra i 300 e i 550 mila€/anno a questi livelli di prezzo della CO2 e in dieci anni 2021- 2030 il costo complessivo delle quote sarà dai 3 ai 5,5 milioni di euro. Un’enormità, soprattutto a fronte di alcun esborso da parte dei loro competitor indiani o cinesi.
Settori come questo, o altri energivori come l’acciaio, hanno enormi difficoltà ad ottemperare gli obiettivi previsti al 2030, e la presidente von der Leyen ne vuole di ancora più ambiziosi.
Il governo italiano ha piena contezza del problema: solo pochi giorni fa è stato chiesto al Mise di aprire un tavolo di discussione sull’ImEA (Imposta sulle emissioni aggiunte, di seguito l’illustrazione della proposta N.d.I.) con vari settori industriali coinvolti e, dato che lo stesso Mise diede parere favorevole in occasione della risoluzione parlamentare sulla stessa ImEA, non dubito che presto si aprirà un confronto.
D. Quest’anno è stata depositata a Bruxelles una proposta sottoscritta da più di un milione di cittadini che prevede di introdurre “un prezzo minimo per le emissioni di CO2, partendo da 50 € per tonnellata di CO2 dal 2020 fino a 100 € entro il 2025. Al contempo, la proposta punta ad abolire l’attuale sistema di quote di emissione gratuite per coloro che inquinano nell’UE e introdurre un meccanismo di adeguamento alla frontiera per le importazioni da paesi terzi, in modo da compensare i prezzi più bassi delle emissioni di CO2 nel paese esportatore” Cosa pensa di questa proposta?
R: Sono molto felice che ci sia stata una così forte partecipazione su questa tematica ambientale. Ma questa è una materia non semplice. In realtà le connessioni e le relazioni tra emissioni, industria, energia e consumi sono davvero più complesse di così. Entrando nel merito…50, 100 euro! Lancio una provocazione: se è in gioco il futuro del pianeta, perché non 1.000 o 10.000?
Se venisse adottato un provvedimento del genere sarebbe un problema sia per l’industria che per l’ambiente. Per l’Europa è possibile imporre obblighi soltanto alle industrie che producono sul territorio europeo, quindi le uniche che pagherebbero questo alto prezzo della CO2 sono le industrie europee che sono anche le più pulite del mondo. In compenso questo ulteriore aggravio sulla produzione comporta una riduzione della competitività sul mercato.
Facciamo un esempio pratico: per produrre una tonnellata di acciaio si emettono circa 1,83[4] tonnellate di CO2; con un prezzo dell’acciaio medio di ca. 500€/ton, quindi, ipotizzando il costo della CO2 sia 100 €/tonCO2., ogni tonnellata di acciaio europea dovrebbe essere offerta a 683€? Invece il prezzo dell’acciaio cinese che, per la cronaca copre il 50% della produzione mondiale, potrebbe essere venduto in ogni parte del mondo a 500€, tranne in Europa dove riceverebbe l’aggravio di una tassa alla frontiera. Oltre al fatto che, probabilmente, per produrre quella tonnellata in Cina si è emesso anche di più.
Queste iniziative comportano effettivamente una diminuzione delle emissioni prodotte in Europa ma solo perché annichiliscono l’industria europea pulita e favoriscono le industrie cinesi, indiane e statunitensi molto più inquinanti. Ci aspetta un’Europa basata sui servizi, tipicamente poco emissivi, e una produzione industriale extra UE che ci condurrà più vicino alla catastrofe climatica.
D. La nuova presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen, nel suo discorso programmatico al Parlamento Europeo, propone di innalzare l’obiettivo UE 2030 di riduzione delle emissioni climalteranti al 50% e, per fare questo, prevede un nuovo rafforzamento del meccanismo ETS e, contemporaneamente, per contrastare il carbon leakage, l’introduzione di una “carbon border tax”, partendo dai settori più interessati. Cosa pensa di questa proposta?
R: Al di la delle definizioni date alle misure, non appare opportuno creare le condizioni per guerre commerciali. Gli obiettivi fissati nella roadmap europea sono legittimi e auspicabili ma le misure proposte, quali una tassa alla frontiera, potrebbero creare le condizioni per una compensazione dei costi legati agli obblighi ambientali delle industrie europee sul mercato europeo, ma rimarrebbe un enorme svantaggio competitivo su quello mondiale. E, fino a prova contraria, siamo nella globalizzazione. Se anche si riuscisse a compensare pienamente i costi delle emissioni con una carbon border tax sulle imprese extra UE, questa compensazione di costi e dunque di competitività avverrebbe unicamente sul mercato e sul territorio europeo. Dalla Turchia in poi, per dire, i produttori europei si troverebbero completamente fuori mercato perché tassati sulla produzione, mentre i produttori extra UE potrebbero fare il loro prezzo senza sovrattassa europea. E questo solo nella migliore ipotesi: nella peggiore infatti, le industrie europee semplicemente andrebbero fuori dal territorio per produrre senza vincoli ambientali.
Inoltre (e in tutti i casi), le misure proposte non avrebbero effetti sulle emissioni globali e sui cambiamenti climatici. Infatti, ipotizzando un prezzo ragionevolmente basso e costante del carbone, molto probabilmente le industrie cinesi, indiane e, forse, anche quelle statunitensi visti gli indirizzi politici attuali, per compensare il maggior costo in ingresso sul mercato europeo conseguenza degli eventuali dazi, si approvvigionerebbero da energia a più basso costo, appunto quella prodotta con il carbone che è, indiscutibilmente, più emissiva.
D. La proposta di introdurre una IMEA in Italia aveva raccolto l’interesse del Parlamento nazionale nella passata legislatura, è ancora attuale? Quali nuovi elementi come la diffusione delle applicazioni della blockchain potrebbero facilitare questa iniziativa nel nostro Paese?
R: L’Imposta sulle emissioni aggiunte (Imea) mira a valorizzare sull’IVA le reali e puntualmente contabilizzate emissioni di CO2, a prescindere da dove i beni siano stati prodotti, e ambisce a diventare uno standard di produzione sostenibile. Quindi la contabilizzazione è sempre sulla produzione reale e non sulla media della nazione di provenienza. Questo rende l’Imea molto diversa da una carbon border tax, perché attribuisce una caratteristica “di fabbrica”: così non tutte le pinze cinesi avrebbero lo stesso contenuto di carbonio e non assumerebbe la forma di un dazio “contro”, oggi molto alla moda. In fondo, se una fabbrica indiana o cinese fosse in grado di dimostrare e certificare le proprie puntuali emissioni, sarebbe giusto premiarla con uno sgravio sull’IVA come l’Imea prevede si debba fare sulle efficienti industrie europee: la competizione industriale sul mercato europeo avverrebbe così anche sulla base di chi emette meno nella produzione. Inoltre rappresenterebbe un vantaggio perpetuo per chi produce beni emettendo di meno, a differenza dei dazi che sono misure temporanee e che si prestano a ritorsioni commerciali.
L’interesse sulla proposta è più che attuale, sia tra gli imprenditori che tra i responsabili di governo. Naturalmente, se l’interesse politico resterà forte dipenderà dal governo che sta nascendo.
Osservo che la scelta di nobilitare il “vecchio” dipartimento per l’innovazione della Presidenza del Consiglio dei ministri, in un vero ministero lascia ben sperare. Mi permetto di ricordare che non sempre per fare innovazione occorre inventarsi una rivoluzione, spesso è sufficiente impiegare meglio e più proficuamente risorse già esistenti. Così, quando recentemente mi è stato chiesto in che modo si sarebbero potute tracciare le emissioni emesse durante la produzione di beni complessi come un’automobile o un ferro da stiro in un’altra parte del mondo, con sicurezza, evitando truffe e double counting, ho risposto[5] che una tecnologia perfetta allo scopo è già disponibile: la blockchain, che consentirebbe una gestione rapida, immodificabile e trasparente della filiera produttiva e della tracciabilità delle emissioni di prodotto.
*Agime Gerbeti è docente della LUMSA
[1] https://www.sendeco2.com/it/ ultimo accesso il 16 settembre 2019.
[2] Cfr.1.
[3] Dati studio d’impatto, Confindustria Ceramica, 2019.
[4] www.worldsteel.org ultimo accesso il 16 settembre 2019.
[5] Catino e Gerbeti in Blockchain e tracciabilità delle emissioni industriali. Rivista Energia 2/2019.