LA PROPOSTA DI LEGGE SULL'ACQUA
Un Briefing Paper dell’Istituto Bruno Leoni spiega che la proposta di legge sull'acqua non produrrebbe alcun cambiamento sostanziale, ma metterebbe a repentaglio gli investimenti ambientali e costerebbe decine di miliardi allo Stato
1. Introduzione
Non importa che il gatto prenda i topi: l’importante è che sia del colore giusto. La riforma del settore idrico, in discussione alla Camera dei Deputati col sostegno del Governo, sembra rovesciare il motto di Deng Xiaoping. Il disegno di legge, che ha come prima firmataria la deputata Federica Daga,[1] ha per obiettivo quello di perseguire “una gestione pubblica partecipativa e trasparente del bene comune costituito dall’acqua”. La proposta riprende con alcune modifiche l’analogo progetto di iniziativa popolare depositato dai movimenti per l’acqua nel 2007. Esso nasceva dalla convinzione che “il sistema ha fallito e le politiche di privatizzazione hanno prodotto il disastro”.
Come vedremo in questo articolo, se approvata, tale proposta avrebbe conseguenze negative per il settore, andando ad aggravare proprio la situazione che – correttamente – identifica come critica, ossia la necessità di nuovi e ulteriori investimenti. In primo luogo, il presupposto è scorretto: non è vero che in Italia vi sia mai stata una politica di privatizzazione dell’acqua. L’acqua è una risorsa pubblica, mentre la gestione del servizio idrico è stata oggetto nel passato di modesti tentativi di apertura anche ai capitali privati ma è e rimane saldamente in mano pubblica. Secondariamente, le modifiche previste – che riguardano principalmente la natura giuridica dei gestori, le modalità di affidamento e la regolazione tariffaria – avrebbero impatti potenzialmente devastanti sul settore: rischierebbero di bloccare (o comunque rallentare significativamente) gli investimenti, ridurre il controllo sull’efficienza delle gestioni e dunque far potenzialmente lievitare gli sprechi e i costi, e peggiorare la qualità del servizio.
Il settore idrico è stato interessato, a partire dagli anni Novanta, da numerose riforme, caratterizzate da altrettanti passi in avanti e marce indietro. A una prima fase di progressiva apertura del mercato – con l’introduzione dell’obbligo di affidamento del servizio, tramite gara, seppure con numerose deroghe – è seguito un brusco stop, con l’esito inequivoco del referendum del 2011.[2]
Nonostante tali frequenti e significativi cambiamenti relativi alle modalità di individuazione dei soggetti responsabili delle reti idriche e delle caratteristiche dei relativi contratti di servizio, la disciplina di riferimento ha in parallelo seguito un’evoluzione, nel complesso, coerente sul fronte della politica tariffaria. Infatti, sin dalla Legge Galli del 1994 – e sulla scorta delle direttive europee in materia di ambiente – la determinazione della tariffa ha seguito in modo sempre più stretto il principio della cost-reflectiveness, in forza del quale: i) i costi del servizio di approvvigionamento, fognatura e depurazione dell’acqua devono essere allocati in modo proporzionale al consumo, per scoraggiare il consumo eccessivo e la produzione di esternalità negative, in base al principio “chi inquina paga”; ii) di conseguenza, il finanziamento del servizio deve dipendere quanto più possibile dal gettito tariffario e quanto meno possibile dalla fiscalità generale.
La disciplina si è, infine, stabilizzata dal 2012, quando l’Autorità per l’energia (oggi: Arera) ha ottenuto la competenza in materia tariffaria. Ciò ha reso possibile la ripresa degli investimenti.[3]
La pdl Daga, se approvata, interverrebbe sul settore – tra l’altro – in tre modi:
In sostanza, il cuore del ddl consiste non solo nell’espulsione del privato dalla gestione dell’acqua, ma anche nell’individuazione di una forma giuridica tipicamente pubblicistica per i soggetti incaricati di gestire il servizio. A tale contro-rivoluzione si accompagna la ri-politicizzazione della tariffa, attraverso la restituzione delle competenze relative alla sua determinazione al Governo (attraverso il Ministero dell’Ambiente). La proposta ha ricevuto l’endorsement dell’esecutivo, attraverso il Ministro dell’Ambiente, Sergio Costa,[4] che ha fatto esplicito e ripetuto riferimento proprio a quest’ultimo aspetto. Anche il Presidente della Camera, Roberto Fico, ha attribuito all’approvazione della legge un elevato grado di priorità politica.[5]
Questo paper è organizzato come segue. La seconda sezione ricostruisce brevemente l’organizzazione del settore idrico. La terza mostra che non è in atto alcun processo di privatizzazione – anzi, il settore è quasi interamente in mano a soggetti pubblici. La quarta illustra alcune conseguenze della pdl Daga sulle finanze pubbliche. La quinta parte si concentra sul tema degli investimenti e sull’esigenza di un quadro tariffario stabile e affidabile. Il sesto paragrafo riassume e conclude.
2. La regolamentazione del settore idrico
È dalla Legge Galli del 1994, che il Sistema Idrico è sottoposto a un costante e complesso processo di riforma. Solo di recente sembrava aver raggiunto un equilibrio.
Fu paradossalmente il referendum sull’acqua pubblica del 2011 – facendo venir meno l’obbligatorietà degli affidamenti tramite gara e mettendo in discussione le modalità di determinazione della tariffa, oggettivamente anacronistiche – a porre le premesse per una regolazione moderna ed efficace. I promotori del referendum avevano descritto i quesiti – in particolare quello relativo alla remunerazione del capitale investito – come se essi avessero potuto produrre un mondo nel quale gli investimenti nelle reti idriche, fognarie e di depurazione si finanziano a costo zero. Ovviamente non fu così né poteva esserlo.
La vittoria referendaria produsse un vuoto normativo che venne gradualmente riempito. Oggi, l’organizzazione regolamentare del Sistema Idrico – sia nella forma del Servizio Idrico Integrato,[6] sia nelle forme collaterali, per quanto concerne l’impiantistica – spetta alle Regioni, mentre il Ministero dell’Ambiente esercita le competenze relative alla tutela dell'ambiente e dell'ecosistema (fatti salvi i poteri in materia igienico-sanitaria spettanti al Ministero della salute). Le prime assicurano un quadro normativo chiaro su cui viene intrapresa l’organizzazione e la gestione dell’apparato idrico nazionale. Secondo le leggi regionali, attualmente in vigore, l’assetto territoriale della Governance è suddiviso in 64 ambiti territoriali ottimali (ATO),[7] all’interno dei quali è previsto – anche se non sempre correttamente implementato – il principio dell’unicità della gestione. Alle Regioni spettano anche compiti di pianificazione e controllo sull’erogazione del servizio.
La determinazione della tariffa spetta all’Autorità di regolazione per energia reti e ambiente (Arera). Per il periodo 2016-2019, la metodologia tariffaria tiene conto, tra l’altro, del fabbisogno di investimenti in ogni ambito e dell’efficienza con cui il servizio viene prodotto dal gestore.[8] Il metodo è noto ex ante e disegnato in modo tale da incoraggiare gli investimenti, specie dove sono più necessari, attraverso l’adeguato riconoscimento del costo del capitale investito. Questo garantisce un quadro normativo chiaro su cui viene intrapresa l’organizzazione e la gestione dell’apparato idrico.
Tale scelta ha avuto riflesso nell’organizzazione industriale dell’intero settore. Si evidenzia come il ruolo delle Regioni nell’organizzazione di ogni ATO faccia affidamento su certa flessibilità normativa che permette una maggiore efficienza gestionale e di qualità del servizio attraverso la decentralizzazione del sistema, dal livello statale a quello locale.
3. A chi appartiene l'acqua in Italia
L’acqua, intesa come risorsa, è per legge una proprietà pubblica ed è fornita gratuitamente agli utenti del SII (Sistema Idrico Integrato). Quello che essi pagano attraverso la tariffa idrica è il servizio che va dalla captazione dell’acqua fino alla sua restituzione all’ambiente. La prima domanda da porsi è: la gestione dell’acqua è stata davvero privatizzata nel nostro paese?
Le forme tipiche di gestione del SII, classificate facendo riferimento alle modalità previste dall’ordinamento europeo e dalla normativa nostrana in materia di organizzazione dei servizi pubblici locali a rete a rilevanza economica,[9] sono: I) l’affidamento in house; II) l’affidamento in concessioni a terzi, derivante da gara a evidenza pubblica; III) l’affidamento a società mista. A queste si aggiungono: IV) gli affidamenti a società quotate (conseguenza della quotazione in borsa di alcune imprese ex municipalizzate); V) le gestioni in economia; VI) altre forme residuali di gestione.
Delle diverse tipologie di affidamento previste dalla normativa vigente, quella più comune è l’affidamento diretto, che riguarda circa il 48 per cento della popolazione italiana. L’affidamento diretto è possibile solo in presenza di gestori a capitale interamente pubblico, oppure soggetti con capitali parzialmente privati a seguito dell’individuazione di un socio industriale selezionato tramite gara o in esito alla quotazione in borsa. L’in house è particolarmente diffuso nel Nord-Ovest, dove riguarda il 70 per cento della popolazione. Anche i grandi operatori regionali del Mezzogiorno hanno affidamenti diretti (Figure 1 e 2).
Figura 1. Ripartizione percentuale della popolazione per modello gestionale (Dicembre 2016).
Fonte: Blue Book 2017.
Figura 2. Distribuzione geografica delle gestioni per modello (dicembre 2016).
Fonte: Blue Book 2017.
La larga maggioranza della popolazione – oltre 28 milioni di italiani in 4.146 comuni – sono serviti da società in house. La seconda forma di affidamento più comune, la gestione da parte di società quotata, raggiunge 10,1 milioni di abitanti in 547 comuni, seguita dall’affidamento a società mista, riguardante quasi 7,5 milioni di persone in 677 comuni. Le gestioni in economia sono presenti in 1.634 comuni per un totale di 6,6 milioni di cittadini, l’affidamento in concessione a terzi riguarda circa un milione di individui in 126 comuni e altre gestioni poco meno di 6 milioni di abitanti in 590 comuni.
Complessivamente, quindi, circa 41 milioni di italiani (il 68,7 per cento) sono serviti da gestori interamente pubblici, mentre il restante 31,3 per cento (18,7 milioni) ricevono il servizio da soggetti che hanno la partecipazione di capitali privati. Alla prima categoria appartengono le società in house, le gestioni in economia e le “altre forme di gestione”. Della seconda fanno invece parte le società miste, quelle quotate e gli affidamenti a terzi.
Le uniche gestioni realmente a controllo privato sono quelle che ricadono sotto l’etichetta di affidamento a terzi. Esse riguardano una piccola minoranza di persone (circa 1,1 milioni, corrispondenti all’1,8 per cento della popolazione): 76 mila in Piemonte, 469 mila nel Lazio e 550 mila in Sicilia.
Nelle società miste e in quelle quotate è, nei fatti, il socio pubblico a mantenere il controllo. Per mantenere la stima conservativa, adotteremo una definizione restrittiva – cioè classificheremo come “pubbliche” solo le società per le quali il socio pubblico mantiene la maggioranza del capitale. Sotto tale vincolo, si può stimare che almeno i tre quarti della popolazione servita da società miste (5,6 milioni di persone) riceva il servizio da realtà “pubbliche”, mentre i restanti 1,8 milioni da entità “private”. Per quanto riguarda le quotate, i soci pubblici hanno sempre la maggioranza.[10]
In conclusione, si può sostenere che il servizio idrico è stato “privatizzato” – pur consci di quanto tale termine sia impreciso – soltanto per il 5 per cento circa degli italiani. Tale stima trova conferma in un ulteriore dato, relativo alla ripartizione del numero di operatori, del fatturato e degli addetti per natura proprietaria dei soggetti gestori (Figura 3).
Figura 3. Distribuzione del numero di operatori, del fatturato e del numero di addetti nel settore idrico per tipologia di azionariato (2016).
Fonte: elaborazione su Blue Book 2017.
Dal punto di vista degli assetti proprietari l’analisi delle attuali gestioni consente di arrivare a una conclusione: l’acqua è già pubblica. Non solo in quanto commodity, ma anche se si guarda al controllo sostanziale dei soggetti gestori. Quello che serve al settore, semmai, è attirare capitali e creare condizioni competitive per effettuare i necessari investimenti. Di conseguenza, la proposta di legge in discussione alla Camera non interverrebbe sulla sostanza del controllo, ma solo sulla forma giuridica dei soggetti concessionari e sulle modalità di determinazione della tariffa.
4. Quali costi per lo Stato
In questa sezione di occuperemo degli effetti della cessazione anticipata delle concessioni e della riduzione di tutte le forme di gestione all’unica fattispecie dell’ente di diritto pubblico. La trasformazione delle attuali imprese (pubbliche e private) in soggetti di diritto pubblico avrebbe enormi (e potenzialmente devastanti) conseguenze sulla loro operatività. Verosimilmente tutto ciò si tradurrebbe in una minore efficienza dei processi produttivi, nel medio termine.
Vi sarebbero però anche due conseguenze di breve termine, le quali determinano un potenziale costo che le finanze pubbliche potrebbero non essere in grado di assorbire e che in ogni caso rischierebbe di bloccare la trasformazione, creando così un insanabile contrasto tra il dettato legislativo e la realtà sottostante.
Un primo aspetto riguarda i “costi vivi” dell’operazione. La scadenza anticipata della concessione e la conseguente espulsione dei soci privati sarebbe equivalente a un esproprio, ai danni sia dei soci dei pochi gestori indipendenti rimasti, sia dei soci di minoranza delle società quotate e miste. Secondo la società Oxera, l’anticipo delle scadenze concessorie richiederebbe un indennizzo una tantum stimabile nella forchetta 8,7-10,6 miliardi di euro, a cui si aggiungerebbero oltre 3 miliardi di euro per il rimborso del debito finanziario a carico degli enti locali e circa 2 miliardi (espressi come valore attualizzato) per i mancati introiti da canoni di concessione.[11] Queste risorse sarebbero a carico dello Stato che, verosimilmente, per far fronte all’esborso coprirebbe tale spesa tramite aumento delle tariffe, della tassazione e/o del debito pubblico, con effetti potenzialmente regressivi (e contro la stessa logica che vede costi “eccessivi” per l’acqua).
Oltre all’uscita una tantum connessa alla decadenza anticipata delle concessioni in essere, il ddl Daga determina anche un altro, macroscopico effetto di finanza pubblica. Attualmente, la tariffa idrica rappresenta il corrispettivo di un servizio, e finanzia la maggior parte dei costi (operativi e di investimento) degli operatori. Questi ultimi hanno (nella maggioranza dei casi) forma societaria di diritto privato e, anche se sono controllati da azionisti pubblici, agiscono formalmente da soggetti privati. Di conseguenza, correttamente, vengono considerati esterni al perimetro pubblico.
Questa classificazione sarebbe ancora valida nel caso in cui ne mutasse la natura giuridica? Secondo gli standard contabili attualmente vigenti (ESA 2010),[12] per stabilire se un’entità giuridica autonoma vada considerata come parte del settore pubblico oppure alla stregua di un’impresa privata occorre seguire l’albero decisionale rappresentato in Figura 4.
Figura 4. Albero decisionale.
Fonte: Eurostat.
I passaggi cruciali, ai nostri fini, sono il secondo e il terzo – relativi, rispettivamente, al controllo pubblico e alla natura delle produzioni (di mercato o non di mercato). Il manuale ESA2010 non definisce il controllo pubblico con riferimento alla sola natura dell’azionariato, ma all’effettivo potere di indirizzo che lo Stato (o altro ente pubblico) esercita su una certa entità. I parametri a cui guardare sono i seguenti: I) la proprietà della maggioranza delle azioni con diritto di voto; II) il controllo diretto sul vertice societario; III) la possibilità di controllare, nominare o rimuovere figure chiave nell’organigramma; IV) il controllo di organi collegiali cruciali all’interno dell’organizzazione; V) l’esistenza di una golden share; VI) l’esistenza di regolamentazioni speciali; VII) il fatto che lo Stato sia la principale controparte commerciale; VIII) il finanziamento pubblico. Alla luce di questi criteri, non v’è dubbio che, per le entità risultanti dalla riforma, sussisterebbe il criterio del controllo pubblico.
La seconda questione da verificare è se le produzioni da esse svolte abbiano i requisiti del mercato o del non-mercato. Un produttore è considerato non di mercato se: I) vende i suoi prodotti unicamente al governo (o ad altri enti pubblici) oppure II) i suoi prodotti sono venduti a clienti privati a prezzi “non economicamente significativi”. Ciò significa che i prezzi non sono cost-reflective e, soprattutto, non sono tali da determinare rilevanti effetti allocativi (cioè, tipicamente, sono nulli o comunque troppo bassi).[13] L’idea sottostante il ddl Daga è proprio quella di utilizzare la fiscalità per finanziare totalmente o largamente la spesa in conto capitale, che rappresenta una delle principali voci di costo dei gestori del servizio idrico (e questo sarà tanto più vero quanti più investimenti saranno effettuati).
In sostanza, vi è una concreta ed elevata probabilità che, se la riforma fosse approvata e i gestori del servizio fossero ripubblicizzati nel senso definito dalla norma stessa, essi sarebbero riclassificati ai fini statistici all’interno del perimetro pubblico.[14] In tal caso, i debiti dei gestori idrici andrebbero consolidati nel bilancio degli enti controllanti (e quindi andrebbero, direttamente o indirettamente, a contribuire al debito pubblico), analogamente ai risultati della gestione (che avrebbero dunque, direttamente o indirettamente, effetto sul deficit).
Un’indagine sulle maggiori imprese monoutility ha censito, nel 2015, un’esposizione debitoria complessiva pari a circa 11 miliardi di euro. Il campione di riferimento rappresentava all’incirca il 70 per cento del fatturato del settore nel 2015, con un rapporto debito / fatturato pari a circa 2. Assumendo che quest’ultimo sia pressoché costante nel tempo, e possa essere estrapolato anche alle imprese esterne al campione, si può stimare un’esposizione debitoria nel 2019 pari a oltre 17 miliardi di euro, che andrebbe consolidata nel debito pubblico (facendone aumentare il livello in misura pari ad almeno un punto di Pil). A questi si aggiungerebbe un fabbisogno annuo tra i 2-4 miliardi di euro per finanziare gli investimenti necessari.
A maggior ragione, finirebbero per contribuire al debito pubblico i nuovi debiti, necessari a sostenere la spesa per gli ulteriori – e non banali – investimenti ancora da affrontare. Questo, in un contesto di regole e Trattati che impongono un sentiero di riduzione del rapporto debito/Pil, costituirebbe un freno agli investimenti necessari.
5. Lo stato dei servizi erogati
Il contesto nel quale tali cambiamenti andrebbero a inserirsi è caratterizzato da un forte fabbisogno di investimenti, che proprio la regolazione introdotta dall’Arera è riuscita in parte a sbloccare. La regolazione ha infatti garantito certezza ed equità nella pianificazione degli investimenti e ha consentito di coprire il costo dei capitali investiti, che ne hanno facilitato la raccolta, analogamente a quanto accade in settori industrialmente contigui quali le reti elettriche e gas.
Secondo le rilevazioni più recenti, se la copertura degli acquedotti è capillare (viene stimata nel 95,6%), ma resta insufficiente quella delle fognature (93,1%) e soprattutto del servizio di depurazione (85% in termini di capacità ma soltanto 78,5% in termini di carico trattato). Se ne può dedurre che non solo sono necessari rilevanti investimenti ma che tali investimenti sono oggi finalizzati primariamente alla tutela dell’ambiente. Un rallentamento dovuto a cause esogene avrebbe ricadute immediate e significative sulla qualità degli ecosistemi, soprattutto al Sud, dove prevalgono gestioni in economia con modelli analoghi a quelli promossi dalla pdl Daga. Nel Mezzogiorno, infatti, la copertura del servizio di depurazione in termini di carico trattato è appena del 68,6%.
Inoltre, la vetustà dei materiali con cui sono stati costruiti gli impianti idrici conduce a una dispersione del 30%-35% dell’acqua immessa nelle reti. Nel Nord la percentuale di perdite reali si assesta al 26%, al di sotto della media nazionale, mentre al Centro la percentuale sale al 46% e al Sud risulta pari al 45%. Mediamente, si disperdono 46 metri cubi di acqua potabile per ogni abitante, equivalenti a circa 161 metri cubi di acqua per utenza e 6.320 metri cubi per chilometro di rete.
I risultati di una recente indagine, avviata con deliberazione Arera 595/2015/idr (sulle strategie di pianificazione adottate nei programmi degli interventi del servizio integrato) evidenziano che tra le criticità più ricorrenti sono, soprattutto, l’inadeguatezza delle condizioni fisiche delle condotte fognarie e delle reti di distribuzione, la mancanza delle reti di raccolta e collettamento dei reflui, l’assenza totale o parziale del servizio di depurazione [15]. Infatti, nel dicembre del 2016, la Corte Europea ha nuovamente deferito l’Italia per le violazioni alla direttiva 91/271/CEE concernente il trattamento delle acque reflue urbane. Per ben 80 agglomerati non risultano presenti adeguati sistemi di raccolta e trattamento delle acque reflue.
Per spiegare il diverso livello delle perdite tra Nord e Sud, e la differente copertura del servizio di fognatura e depurazione, non bisogna fermarsi all’apparenza ma occorre guardare all’organizzazione del settore. I dati rivelano infatti che la redditività (che possiamo assumere quale proxy dell’efficienza) varia a seconda della dimensione delle aziende, generalmente più grandi al Nord e meno nel Mezzogiorno. La crescente complessità tecnologica del settore, infatti, dà luogo a rilevanti economie di scala e di scopo, almeno fino a una certa dimensione. Anche questo aspetto rischia di entrare in collisione con le conseguenze della pdl Daga. Per esempio, la Figura 5 mostra alcune misure di produttività per classe dimensionale.
Figura 5. Analisi di produttività per classe dimensionale (aziende monoutility - 2015).
Fonte: Blue Book 2017.
Ancora più significativa è la differenza tra i risultati se guardati in termini di indici di redditività, quali il ritorno sugli investimenti e il ritorno sul capitale investito (Figura 6).
Figura 6. Indici di redditività per classe dimensionale (aziende monoutility – 2015).
Fonte: Blue Book 2017.
La ripubblicizzazione e il ritorno a una maggiore dipendenza dalla politica – in quanto il finanziamento per mezzo di trasferimenti dalla fiscalità è intrinsecamente meno sicuro e bancabile rispetto alla garanzia tariffaria – metterebbe in crisi l’intero settore, mettendo a repentaglio la capacità delle imprese di raccogliere le risorse richieste dagli investimenti necessari. Oltre tutto, tale modifica verrebbe introdotta proprio nel momento in cui gli investimenti sono tornati a crescere, dopo il crollo determinato dall’incertezza post-referendaria, e l’equilibrio tra proventi della tariffa e trasferimenti fiscali sembra essersi assestato, mentre il fabbisogno di investimenti – come abbiamo visto – è crescente (Figura 7).
Figura 7. Fabbisogno di investimenti nel settore idrico: 2016-19.
Fonte: Arera.
6. Conclusione
Il Sistema Idrico ha trovato un suo faticoso equilibrio, dopo anni di tumultuosi cambiamenti scanditi dal contrasto tra la ricerca del “meglio” e la difesa del “bene” – e questo è vero qualunque definizione si dia di tali aggettivi. L’attuale assetto è caratterizzato da una forte prevalenza del pubblico a tutti i livelli e da una buona regolazione che ha consentito, nel tempo, di riavviare un ciclo di investimenti, soprattutto nei servizi di fognatura e depurazione. La politica di aggregazione che ha interessato almeno una parte del paese ha a sua volta permesso di catturare economie di scala – inevitabili data la complessità tecnologica del settore – e la forma di impresa ha obbligato i soggetti gestori a darsi una disciplina economica e finanziaria. Si può dire che si è raggiunto un equilibrio possibile ed efficace.
La proposta di legge Daga per l’acqua pubblica rappresenta, nel nome, una fake news e, nella sostanza, un passo indietro. La fake news consiste nel fatto che l’acqua è già pubblica: non solo in forza del dato formale sulla proprietà statale della commodity (e sulla sua gratuità nell’ambito del servizio reso ai cittadini), ma anche rispetto a un requisito sostanziale. La larga maggioranza dei gestori, infatti, è a capitale interamente pubblico; e tutti quelli a capitale misto sono a controllo pubblico. I gestori puramente privati rappresentano ormai una pittoresca eccezione in un contesto ampiamente pubblicistico. L’introduzione di nuovi requisiti sulla forma giuridica dei soggetti gestori non avrebbe pertanto alcun impatto sul controllo di fatto, ma determinerebbe un rilevante costo per l’indennizzo degli attuali gestori (quantificabile in circa 15 miliardi di euro) e la sottrazione di gradi di libertà operativa ai gestori. Inoltre, la ridefinizione della natura giuridica dei gestori e lo spostamento dei loro canali di finanziamento (e della politica tariffaria) verso la fiscalità avrebbe come conseguenza inevitabile l’inclusione delle attuali imprese, e futuri enti pubblici economici, all’interno del perimetro pubblico. Ciò produrrebbe la riqualificazione dei debiti e l’incremento del debito pubblico di almeno un punto di Pil, più eventuali incrementi futuri, e al netto delle possibili perdite di esercizio che andrebbero a concorrere al deficit.
L’efficacia aziendale sarebbe ulteriormente messa a repentaglio dalla ri-politicizzazione della tariffa idrica, derivante dalla sottrazione dei poteri in materia all’Arera per assegnarli al Ministero dell’Ambiente. E’ proprio la certezza della regolazione che ha consentito, negli ultimi anni, una ripresa degli investimenti. Il ritorno all’incertezza della politica sarebbe un drammatico passo indietro, con potenziali e grandi danni per la qualità ambientale, specie se si tiene conto che gran parte del fabbisogno di investimenti riguarda i servizi di fognatura e soprattutto depurazione, specialmente nel centro-sud.
Il settore idrico ha bisogno di investimenti e gli investimenti richiedono stabilità normativa e buona regolazione. Se approvata, la proposta di legge sull’acqua pubblica – nel nome di una rivoluzione solo formale – farebbe venire meno l’una e l’altra.
NOTE
[1] http://www.camera.it/leg18/126?tab=2&leg=18&idDocumento=52&sede=&tipo=
[2] http://www.gazzettaambiente.it/scheda.cfm?id=190&l_acqua_dopo_il_referendum
[3] V. infra.
[5] Luca de Carolis, “Fico: Ora la legge sull’acqua pubblica”, Il Fatto Quotidiano, 14 gennaio 2019.
[6] Il servizio idrico integrato comprende tutti I servizi legati al ciclo dell’acqua a usi civili, agricoli e industriali: la captazione, adduzione e distribuzione prima, e poi la fognatura e la depurazione delle acque reflue.
[7] Utilitatis, Blue Book, 2017, pag.50
[9] Articolo 149 bis del D. Legs 152/2006.
[10] Nel caso di Hera, i comuni azionisti si collocano leggermente al di sotto di tale soglia (48,5 per cento del capitale) ma, nell’assenza di altri soci rilevanti, esercitano ovviamente il controllo.
[11] Alfredo Macchiati, “Buchi nell’acqua”, Il Foglio, 16 gennaio 2019
[13] Istat recepisce questo criterio come segue: “società o quasi-società controllate da un'amministrazione pubblica, a condizione che la loro produzione consista prevalentemente in beni e servizi non destinabili alla vendita, ovvero che i proventi derivanti da vendite o entrate ad esse assimilabili non riescano a coprire almeno la metà dei costi di esercizio”. Si veda https://www.istat.it/it/files//2016/09/Nota-informativa.pdf
[14] https://www.istat.it/it/archivio/19074
[15] Alcuni esempi noti di cattiva qualità dell’acqua in uscita dal rubinetto, registrati nel recente passato, riguardano da un lato gli inquinanti di origine naturale, per i quali la normativa ha previsto un abbassamento dei limiti qualitativi e per i quali l’Italia ha registrato ritardi nell’implementazione di soluzioni volte al superamento delle criticità e dall’altro lato gli inquinanti di origine naturale e antropica per i quali la normativa nazionale non fissa limiti di valutazione, ma che sono stati rilevati in concentrazioni talmente significative da richiedere l’intervento degli organi di controllo